giovedì 3 settembre 2015

Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (part IV & V)



Parte Quarta. Le Traduzioni

15. La traduzione religiosa

La traduzione religiosa non è il genere più antico di traduzione: v’era la traduzione diplomatica. Ma con lo sviluppo delle religioni divenne il genere più importante.
La Bibbia ne è l’esempio più stupefacente, ma non il solo: il libri buddisti furono tradotti in cinese, sanscrito, tibetano, mongolo.
A partire dalla versione dei Settanta ve ne furono poi in tutte le lingue (ebraica, caldea, greca, ecc.) ma con l’istituzione della Vulgata (san Gerolamo, V sec.) come unico testo autorizzato la traduzione latina si arrestò. In compenso, le religioni protestanti ne diedero nuove traduzioni e continue revisioni (versione tedesca, calvinista, anglicana), una vera e propria industria.
La traduzione della Bibbia è stata dunque un’attività di notevole portata perché è stata il banco di prova dei problemi teorici sulla traduzione. Infatti, se inizialmente il rispetto della parola divina immobilizzava alla versione letterale, con il Rinascimento la traduzione protestante ha imposto il punto di vista contrario, cioè che ogni traduzione deve essere fedele tanto allo spirito quanto alla lettera del testo.
Questa preoccupazione di dare una traduzione fedele ma intellegibile al lettore di ogni epoca ha condotto a imporre la revisione della Bibbia ogni min 20 max 50 anni (Congresso dei traduttori della Bibbia, 1947).
Altro importante aspetto è il carattere spesso collettivo dell’impresa che poneva come corollario il problema della unità di tono, che in generale veniva salvaguardata dall’unità ideologica del gruppo, come bene aveva visto Lutero.
Occorre dire infine che ogni traduzione discende di qualche strato verso l’originale come in uno scavo archeologico.

16. La traduzione letteraria

Occupa statisticamente il primo posto tra tutti i generi di traduzione. Il problema della traduzione letteraria nacque dal conflitto, già in Cicerone, tra la tradizione sacra della versione letterale e l’abitudine profana del libero adattamento (dal Medioevo al XVIII s.). È l’annoso problema della fedeltà opposto alla bellezza.
Quando Cary suggerisce che la traduzione letteraria è un’operazione letteraria e non linguistica, non afferma che bisogna scegliere un’alternativa (fedeltà o bellezza) ma che bisogna associare le due cose: prima la fedeltà poi la bellezza.
Ma cosa si deve rendere di un testo? La risposta è: il contesto. Ma se l’antica nozione di contesto era chiara (l’insieme degli indizi) oggi la nozione di contesto richiede di farne un inventario, perché c’è il contesto linguistico, geografico, storico, culturale, sociale e per stabilire distinzioni più precise di questi contesti la linguistica ha proposto definizioni più esatte. Anzitutto la nozione di messaggio, cioè l’insieme di significati di un enunciato di natura extralinguistica (storica, geografica, ecc.). Riservando alla nozione di contesto tutte le indicazioni fornite esplicitamente dal testo la linguistica definisce situazione tutte le indicazioni (geografiche, storiche, culturali) non presenti nell’enunciato ma implicite. È dunque priva di qualità la traduzione che non rispetti la fedeltà prima al contesto poi alle situazioni. La linguistica ci ha dato anche l’analisi di tutte le diverse lingue di una lingua (volgare, popolare, gergale, ecc.) definiti ‘registri di lingua’.
Dal tempo in cui la fedeltà di una traduzione letteraria significava tradurre ogni parola con una parola, ora sinonimo di infedeltà del contesto e della situazione, l’analisi linguistica ha riportato qualità alla traduzione letteraria, perché oggi tradurre significa nono solo rispettare il senso strutturale del testo, ma anche il senso globale del messaggio.
Ed ecco la nuovissima definizione di fedeltà di una traduzione. Vinay e Darbelnet distinguono sette modi leciti di traduzione, la quale non è più solo rispetto della forma o del contenuto, ma trasmissione la più esatta possibile del ‘rapporto tra forma e contenuto dell’originale’. Anzitutto l’imprestito (parola straniera), il calco (copia della forma), la traduzione letterale, la trasposizione (traduzione violando il preteso spirito della lingua), la modulazione (cambio del punto di vista), l’adattamento (si traduce una situazione con una analoga).
E dunque merito della linguistica se questi modi di traduzione possano riapparire in una veste più scientifica.
Riguardo la bellezza, per tradurre i poeti bisogna essere poeti, un testo letterario occorre avere stile, ma ciò dipende dal talento e non si può insegnare.
Possiamo dunque dire solo ciò che non si deve fare: evitare le disparità, ossia la mancanza di unità di linguaggio, e tener conto del registro usato nell’originale.
Infine, occorre decidere tra i due registri di traduzione: ad es. un traduttore che traduce in italiano o si ‘italianizza’ il testo, perdendo però il colore della lingua originaria (condurre il testo verso il lettore), o si cerca di estraniare il lettore italiano dal suo mondo senza permettergli di dimenticare che si trova di fronte a un’altra lingua (condurre il lettore verso il testo).


17. La traduzione poetica

La traduzione poetica ha le sue difficoltà peculiari, e a questo si pensa quando si dice che la traduzione è impossibile. Riappare infatti la vecchia disputa tra i ‘professori’, per la fedeltà letterale, e gli ‘artisti’, preoccupati più della fedeltà più profonda da raggiungere.
Ma cosa s’intende per fedeltà poetica? Tradurre esattamente il lessico? La grammatica? Lo stile? La musicalità? In conclusione, lo spirito delle lingue consisterebbe nella loro fonetica? E allora il russo (ricco di sibilanti) esprimerebbe una ‘mentalità sibilante’, l’inglese (ricco di monosillabi) una ‘mentalità monosillabica’? C’è il rischio, in questo caso, di cadere nell’eufonia.

Fedeltà alla poesia
Dunque, per fedeltà poetica si intende la traduzione che sa scegliere le parole-chiave da mostrare, le forme grammaticali e le allitterazioni significative e espressive, saper scegliere i silenzi, le pause o le frasi ellittiche. Tuttavia, siccome ogni lingua ha le sue particolarità, le possibilità inerenti una data letteratura non saranno mai interamente le medesime di un’altra.

Difficoltà della traduzione poetica
La ‘traduziante’, paura di non riuscire a tradurre il significato intero di un testo, spinge spesso ad aggiungere qualcosa e quindi a supertradurre.
Torniamo dunque al vecchio adagio per cui ‘per tradurre una poesia bisogna essere poeti’ soprattutto per capire il testo poetico, le vibrazioni emotive. Ma a ciò si aggiunga che il traduttore-poeta dev’essere anche conoscitore della società da cui quel testo sorge e solo così può raggiungere la comprensione totale di quel testo che vuol tradurre.

18. La traduzione dei libri per bambini

Genere particolare, presenta problemi specifici e insospettate difficoltà, soprattutto quella destinata alla prima età, che pone problemi simili a quelli della traduzione poetica. Per l’importanza che vi hanno i dialoghi, si avvicina invece alla traduzione teatrale, e per l’importanza che hanno le immagini, si avvicina alla traduzione cinematografica.

19. La traduzione teatrale

Abbiamo già accennato all’importanza dei diversi contesti di un enunciato e l’enunciato teatrale è concepito proprio in vista di quei contesti perché scritto in funzione di un pubblico che in sé li riassume conoscendo le situazioni in cui essi si esprimono.
Questo spiega perché la traduzione teatrale sia più rara perché bisogna conoscere a fondo tutti quei contesti che solo chi vive il quotidiano della lingua originaria è possibile conoscere.
Ecco perché di una traduzione teatrale si parla spesso di adattamento, trasposizione o equivalenza.

20. La traduzione per il cinema

Il doppiaggio
Nato con il cinema parlato, già nel cinema muto (in Francia) l’operatore commentava il film ricostruendone i dialoghi. Ma subito sorse il problema dell’isocronia e la necessità di analizzare i diversi movimenti boccali degli attori. Così la fonetica entrava nel cinema: si cominciarono a distinguere  le vocali e le consonanti che fanno aprire la bocca e si cercò l’isocronia delle sillabe, in modo che le battute corrispondessero almeno per il numero di sillabe. Ben presto però tale metodo rivelò subito i suoi limiti: ora il ritmo della voce non quadrava più e a dispetto dell’isocronia sillabica! In inglese infatti la sillaba è più lunga, in italiano le banderitmo recano un testo che è tre volte più fitto di un’altra lingua per via della naturale precipitazione dell’eloquio italiano.
Infine, l’illusione parlata la si cercò attraverso l’isocronia delle sole articolazioni boccali visibili sullo schermo. Anche questo, tuttavia, risultò insufficiente perché alcuni movimenti della bocca (quelli pre- e post-articolari) non sono articolazione linguistica ma semplici smorfie.
Con il ‘sistema della banda’ attuale si elimina dunque la traduzione sillabica fatta senza seguire le immagini: uno specialista mentre guarda il film trascrive su una banda (bandamadre) sincronizzata al film tutto il dialogo riga per riga con tutti i movimenti boccali visibili.
Tuttavia, il doppiaggio presenta altre esigenze, a tal punto che Cary ha potuto affermare che il doppiaggio merita il titolo di traduzione totale.
In realtà l’isocronia delle articolazioni visibili della bocca non basta a un buon doppiaggio: serve anche l’isocronia fra le espressioni mimiche e il testo, fra i gesti e il testo tradotto e ottenere l’isocronia del testo tradotto con tutti gli altri elementi corporei della situazione.

La tecnica delle didascalie
Problema fondamentalmente tecnico, le didascalie non devono superare le 8 lettere e spazi al secondo e ogni didascalia non può superare i 72 segni (9 secondi) e poiché il dialogo originale non è mai così breve, il lavoro del traduttore consiste nel ridurre il testo senza tuttavia allontanarsi dal senso.

La didascalia sonora
È quella usata dagli interpreti quando, in una conferenza, l’applicano come ‘traduzione sussurrata’ utilizzando gli spazi di silenzio del dialogo originale.

21. Le traduzioni tecniche

La traduzione tecnica, ossia tutto ciò che non è traduzione letteraria (poesia, teatro, cinema), è la più vecchia del mondo.

La traduzione diplomatica
Risale ai primi imperi (Egitto, ittiti e assiri). Per secoli in Europa si ebbe il latino come lingua diplomatica (soltanto nel 1672 la Francia dichiarò la preminenza del francese), e conobbe sviluppi grazie alle relazioni che la Francia cominciò ad avere con i turchi (1535) e il mondo arabo, creando corpi appositi di interpreti (gli ‘enfants de langue’) e i dragomanni.
Nello stesso periodo Pietro il Grande creò a Pechino (1727) un seminario di lingue orientali, dove venivano inviati giovani russi detti ‘allievi di lingue’. È tuttavia con il Congresso di Vienna (1815) che la figura dell’interprete prende rilievo. Così Friedrich von Gentz, segretario di Metternich, fu il primo modello dei grandi interpreti e traduttori diplomatici (traduceva indifferentemente per l’Inghilterra, la Francia, la Russia), fra cui citiamo Jean Herbert, poi creatore del corpo di interpreti dell’Onu, e Hans Jacob, interprete capo all’Unesco.

Le traduzioni amministrative
La traduzione amministrativa è vecchia quanto quella diplomatica.
La traduzione giudiziaria è oggi completamente meccanizzata: gli atti vengono tradotti secondo formule stereotipe e tutte uguali.
Quanto alla traduzione militare, in Francia gli interpeti militari sono sorti come erano sorti i dragomanni, cioè con il contatto con le popolazioni arabe al momento della conquista d’Algeria (1930).

La traduzione commerciale
Enorme quanto a volume, presenta anch’essa formule stereotipe e meccanizzate.

La traduzione tecnico-scientifica
Ma a livello non-commerciale e tecnico-scientifico le cose vanno diversamente. Primo problema è che il loro numero è enorme; secondo che non essendovi traduttori specializzati si tende spesso a intraprendere una ricerca piuttosto che tradurre il materiale pubblicato.
Inoltre, anche la traduzione tecnico-scientifica ha i suoi problemi di senso e contenuto. Infatti, se un traduttore letterario commette un errore grossolano, si copre di ridicolo ma nuoce poco all’autore. Il traduttore tecnico invece è ossessionato dagli errori di significato che provocano conseguenze materiali drammatiche se si tratta, ad esempio, di un brevetto d’invenzione.
Per questo, mentre il traduttore letterario diffida del dizionario, il traduttore scientifico lo considera il proprio strumento di lavoro, e ciò ha provocato un’industria dei dizionari specializzati. Col patrocinio dell’Onu è stata all’uopo redatta una bibliografia dei dizionari tecnico-scientifici, aggiornata costantemente dal 1955 dalla rivista “Babel”. Non sono rari i glossari multilingue. 
Ma questa massa di strumenti non basta ancora al lavoro dei traduttori scientifici. Perciò i più abili sono giunti alla convinzione che il miglior dizionario tecnico è un’opera sull’argomento, un buon manuale su cui apprendere rapidamente il lessico necessario.
È stata infine creata un’organizzazione con l’incarico di ‘normalizzare’ e standardizzare il linguaggio scientifico: la International Standards Organizations (ISO), con la sua commissione di unificazione del vocabolario, l’ISO-TC37.


22. Il lavoro dell’interprete

Per secoli i profani hanno sempre confuso tra interprete e traduttore, ponendo il primo a un livello più basso del secondo. Oggi non è più così.

Interprete e traduttore
Oggi l’interprete ha un rango molto più elevato: non è più un anonimo subalterno. D’altronde si tratta di un’attività totalmente diversa dalla traduzione: è una forma orale e istantanea di traduzione.
Il traduttore, infatti, ha tempo (tornare indietro, correggere, rivedere), mentre l’interprete attua una traduzione a prima vista o traduzione a libro aperto; inoltre, dev’essere anche oratore e persino attore, un artista.

Le qualità dell’interprete
Secondo Jean Herbert la qualità fondamentale di un interprete è quella d’essere..


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Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (part III)



Parte Terza. Problemi moderni

9. Linguistica e traduzione
Finora la linguistica non s’era mai occupata di traduzione. Il termine non compare né in Saussure né in Jespersen. Fu solo con le prime ricerche sulla traduzione automatica che si creò la necessità di considerare la traduzione da un punto di vista linguistico. Solo nel 1959 Jakobson le ha dedicato alcune pagine, richiamando l’attenzione che senza la traduzione la linguistica non sarebbe mai esistita.

Tre traduttori pongono il problema
È lecito dunque considerare la traduzione un’operazione che rientra nella linguistica? Nel suo manuale (1958) Vinay chiede intanto che la traduzione venga considerata legata alla linguistica, mentre Fedorov (1953) difende la necessità di creare una teoria scientifica della traduzione fondata ‘soprattutto’ sulla linguistica perché:
1)      la traduzione è un’attività particolare e importante e come tale tende a liberarsi dell’empirismo artigianale e costruirsi una teoria;
2)      una teoria della traduzione dovrebbe essere la generalizzazione delle osservazioni compiute su traduzioni particolari e una volta stabilita dovrebbe escludere qualsiasi soluzione arbitraria;
3)      come ogni fenomeno la traduzione può essere studiata da molti punti di vista (storico, letterario, psicologico ecc.) ma una teoria della traduzione deve fondarsi sullo studio linguistico, non deve prescindere dai fatti di lingua;
4)      con l’analisi linguistica dei fatti di traduzione non si vuol certo pretendere di spiegare ogni aspetto di quella attività né tantomeno i suoi problemi storici, letterari, ideologici, che tuttavia richiedono una solida base linguistica;
5)      che una teoria della traduzione risolva, prima di ogni altra cosa, certi problemi linguistici, fondamentali per la teoria stessa.
Dopo aver affermato la priorità dell’analisi linguistica in fatto di traduzione, Fedorov cerca di darle una collocazione. La ‘scienza della traduzione’ si lega da una parte alla linguistica generale, dall’altra alla lessicologia, alla grammatica e alla stilistica sotto tutti i loro aspetti, fra cui anche quello fonetico. Inoltre, ciò che distingue la teoria della traduzione è l’attitudine di considerare i fatti attraverso due lingue, mettendo così in luce l’intero sistema di corrispondenze esistenti fra loro.
Ma tra tutte le discipline linguistiche, la teoria della traduzione deve avere rapporti più intimi con la stilistica, anche se, considerando che i problemi di una traduzione nascono sempre dal confronto tra due lingue, di stilistica comparata, come in fondo intende Vinay.
Le prime critiche sovietiche furono formulate dal punto di vista letterario: l’attenzione riservata al momento linguistico deprimevano quelle letterarie.
Più compiutamente Cary opponeva la tesi secondo cui la traduzione non è un’operazione linguistica ma un’operazione sui generis irriducibile ad ogni altro ambito scientifico. Quindi la traduzione letteraria non è un’operazione linguistica ma un’attività letteraria; la traduzione poetica è un’attività poetica; la traduzione teatrale un’attività drammaturgica ecc. Per tradurre una poesia bisogna dunque essere poeti, un’opera teatrale scrittori di teatro… per essere interpreti, aggiunge Cary, bisogna essere psicologi, diplomatici, uomini di teatro, mimi ecc.
Alle critiche sovietiche Fedorov rispose di aver effettivamente posto il problema della traduzione artistica in modo troppo ristretto, ma aggiunge che: «Pur rendendo giustizia all’importanza delle questioni letterarie nello studio della traduzione artistica, mi occupo essenzialmente dell’aspetto linguistico del problema, ancora troppo esplorato».

10. Traduzione e significato (imporante)

   Per lunghi secoli i traduttori hanno incontrato difficoltà che riguardavano il senso delle parole da tradurre. Trovavano sempre una soluzione, ma empirica: l’oggetto denominato che non esisteva nella lingua del traduttore veniva sostituito con un imprestito o con un calco, seguiti da una nota esplicativa[1]; se il numero degli imprestiti e dei calchi era esagerato, se ne trasportava il senso senza introdurre la parola, descrivendo in nota la nozione designata dalla parola in originale. È il modo di procedere classico degli etnografi: ad es. C. Levi-Strauss in Tristi tropici (1955) usò circa 300 termini stranieri (noti, tradotti o spiegati in nota); così J. Malaurie, studioso di tribù esquimesi.
Di tutt’altra natura è invece il problema dei transferts di significato, considerato la grande difficoltà del traduttore: è il problema dell’espressività di certe parole, problema legato alla traduzione letteraria e poetica. Come fare infatti per rendere il fascino indefinibile di una particolare parola francese? Si moltiplicano dunque le espressioni tipo ‘in italiano nel testo’ che un autore mette quando nella parola vi trova qualcosa di intraducibile.
Questi problemi, dunque, senza dubbio interessanti ma di minor peso, hanno mascherato per secoli agli occhi dei traduttori i veri problemi del significato.

Ferdinand de Saussure
In realtà, il perché del significato delle parole è un vecchio problema filosofico che ha percorso Platone, Descartes, Leibniz, Peirce, ma è solo nel linguista statunitense William Whitney (prima di Saussure) che lo vediamo formulato in termini linguistici.
Saussure lo riprende, mettendo prima in luce la concezione tradizionale, la sottintesa teoria per cui una lingua è una specie di ‘nomenclatura’ in cui viene attribuito un nome a ogni cosa o concetto già dati in precedenza, per cui non esiste problema di significato che non sia solubile.
Saussure dimostra invece che il rapporto di significazione che unisce una cosa o un concetto a una parola non è così semplice e che la loro denominazione non ubbidisce a leggi universali. Infatti, se il francese mouton indica le due nozioni di animale e della sua carne, l’inglese le distingue (sheep e mutton). Ciò significa che ogni parola fa parte di un sistema e non di una nomenclatura, in cui risulterebbe isolata e come un’etichetta ben definita. All’interno di una lingua, infatti, tutte le parole con significato analogo si limitano reciprocamente e i sinonimi, quindi, hanno valore proprio solo se contrapposti tra loro. Ciò significa che noi cogliamo non le idee già date, ma i valori che emanano dal sistema. Quando si dice ch’essi corrispondono a dei concetti, si sottintende infatti ch’essi sono definiti negativamente, cioè d’essere ciò che gli altri non sono.
Saussure non va oltre: è ancora l’epoca della psicologia classica in cui si crede sull’ipotesi di una natura umana eterna. Tuttavia suggerisce che la suddivisione dell’universo materiale in cose e dell’universo mentale in concetti non è un’operazione soggetta a un’unica legge universale. Tale suddivisione infatti può compiersi a mille livelli diversi: ad esempio, nei gruppi nomadi del Sahara che vivono di allevamento di cammelli, lo spazio semantico esaurito dalle tre povere parole europee (cammello, cammella, cammellino) è coperto da ben sessanta termini per distinguere cose che noi invece confondiamo. Ogni civiltà dunque suddivide il mondo in oggetti secondo i propri bisogni: dato che alleviamo ancora cavalli, ci sono sei termini che li indicano e li distinguono e poiché non alleviamo rondini tutte le rondini sono semplicemente rondini.
Saussure apre così il grande dibattito della linguistica sul problema del senso. E nella sua analisi i traduttori avrebbero trovato di che inquietarsi perché mostrava che il problema della traduzione non era legato ad un preteso ‘genie des langues’ né a pretese ‘ricchezze’ o ‘povertà’ di certi idiomi bensì dalla descrizione di tutta una civiltà di cui la lingua è espressione.
Saussure giustificava tuttavia le soluzioni empiriche dei traduttori: l’imprestito come il calco erano per lui legittimi. Quanto alla traduzione parola per parola, antica utopia di un’epoca che credeva ancora nell’unità dell’universo, essa era condannata e non per ragioni estetiche ma per ragioni epistemologiche: tale traduzione è impossibile perché ogni gruppo sociale fa l’inventario delle cose del mondo in modo diverso e le ‘nomenclature’ non possono quindi mai corrispondere. Tradurre era dunque più difficile di quanto si fosse creduto, ma non impossibile.

Louis Hjelmslev
Con Hjelmslev la critica alla nozione di significato si fa più radicale e in termini puramente linguistici. Prendendo spunto da Saussure, attacca la concezione secondo cui ‘un segno è anzitutto il segno di qualche cosa’: il segno linguistico non è qualcosa che indichi un contenuto esterno al linguaggio ma è un’entità generata dalla relazione fra un’espressione e un contenuto. L’esempio tipico di Hjelmslev è quello di mostrare che non esistono concetti di colori anteriori alle lingue che li denominano.
Se ne deduce la dimostrazione che le lingue riducono il mondo esteriore in oggetti o concetti secondo schemi irrimediabilmente diversi e che non esistono cose o concetti eterni e universali già dati prima di qualsiasi denominazione linguistica. Le diverse lingue dunque analizzano il mondo in modo arbitrario.
Su questo schema Hjelmslev moltiplica le sue analisi studiando la denominazione di legno nelle lingue europee, la nozione di numero grammaticale traendone conclusioni epistemologiche draconiane: l’universo è in se stesso inaccessibile alla conoscenza; esso non possiede un’esistenza scientifica al di fuori del modo con cui se ne parla.
Per indicare ciò che qui noi chiamiamo universo, Hjelmslev usa il vocabolo purport, che sta a significare tutto quanto c’è nella testa di chi parla.
Tali concezioni negherebbero qualsiasi possibilità di tradurre se non fossero attenuate, e a volte contraddette, da altre tesi. La sua posizione sarebbe più corretta infatti se la si modificasse in: il significato (purport) non può avere esistenza linguistica se non rappresentando la sostanza linguistica di una forma linguistica.
E poiché lo studio del contenuto del linguaggio non è compito della linguistica ma di altre scienze esiste dunque la possibilità di accostarsi al purport per altra via senza l’ausilio della linguistica. Tuttavia è importante che i traduttori non dimentichino mai l’analisi dei fatti linguistici perché non si è mai sicuri che l’analisi della realtà di cui parla una lingua corrisponda a quella della lingua usata nel tradurre.

Leonard Bloomfield
Anche Bloomfield, fondatore della scuola di Yale, aveva tentato di eliminare dalla linguistica il ricorso ai significati.
Bloomfield, da parte sua, lo fa cercando di analizzare il linguaggio in funzione del behaviorismo, cioè attraverso la pura descrizione del comportamento del parlante e dell’ascoltatore, sperando di eliminare ogni riferimento di natura psicologica. Pretendeva dunque di ignorare quel che noi chiamiamo coscienza, immagini mentali, ecc., tutte realtà non linguistiche, inaccessibili al linguista e che non si possono mettere in evidenza attraverso mezzi puramente linguistici. Il linguista dunque si occupa di segnali linguistici. Non ha competenza per problemi di psicologia o di fisiologia e le sue scoperte avranno più valore per lo psicologo quanto meno distorsioni avranno subito da supposizioni preconcette. Ne consegue che il significato di una forma linguistica è la situazione in cui l’enuncia il parlante e la risposta ch’esso ottiene dall’ascoltatore; che il significato di un’enunciazione per un parlante non è niente di più del risultato delle situazioni in cui questi ha concepito tale forma.
Simile definizione, fondata sulla nozione di situazione sconvolge profondamente la nozione di senso, perché non ci sono mai situazioni uguali; perché per poter definire esattamente il senso di un enunciato la situazione dev’essere corredata da una conoscenza di tutto quel che c’è nel mondo del parlante; perché la conoscenza esatta dei significati implicherebbe l’onniscienza e quindi la scienza dei significati, la semantica, è il punto debole dello studio del linguaggio.
Preso alla lettera, sembrerebbe che Bloomfield neghi ogni possibilità di traduzione per l’impossibilità di accedere al senso completo degli enunciati. In realtà Bloomfield è stato meno intransigente: anzitutto nella comunicazione delle situazioni vi sono aspetti che non hanno alcuna importanza semantica (se dico ‘ho visto una mela’ l’ascoltatore per capire non ha bisogno di saperne la grandezza, il colore, ecc: il linguaggio traduce infatti, di una situazione, solo la parte socializzata e utile alla comunicazione); inoltre, possiamo definire il significato di una forma linguistica quando esso si riferisce a qualcosa di cui si possiede conoscenza scientifica.
Bloomfield dunque non nega la possibilità di accedere ai significati linguistici e quindi tradurli, ma ha permesso di prendere coscienza delle difficoltà che si incontrano quando vogliamo delimitare la superficie esatta dello stesso enunciato per parlanti e ascoltatori diversi. Così, contribuendo a smantellare l’antica certezza che si potesse tradurre tutto, Bloomfield ha contribuito a perfezionare gli strumenti del traduttore.

11. Semantica e “visioni del mondo”

Wilhelm von Humboldt
Prima di Saussure la nozione di significato in linguistica avrebbe potuto essere scossa dalle teorie di von Humboldt, legate a quella corrente del pensiero tedesco sull’anima popolare e sulla creazione di valori ideali da parte di questa, una concezione poco scientifica della innere, secondo la quale prima della lingua sarebbe esistita una sorta di stampo mentale peculiare a ogni popolo.
In effetti Humboldt richiamava l’attenzione su alcuni fatti del linguaggio. Ad esempio, che il linguaggio non è un ergon (una ‘cosa’) ma energeia (una ‘attività creatrice’); che la lingua è come un prisma deformante, diverso per ogni lingua, ma è anche lo strumento con cui l’uomo crea il suo modo di guardare. La visione del mondo di ogni uomo è data dunque dalla sua lingua. Nel primo quarto del Novecento le idee humboldtiane furono riprese e sviluppate più compiutamente.

Edward Sapir
Le tesi humboldtiane furono riprese dalla scuola di linguisti-antropologi americani allievi di Franz Boas e Sapir seppe chiarirle affermando che il linguaggio e le nostre abitudini di pensiero sono uniti fra loro inestricabilmente e che gli esseri umani non vivono solo nel mondo oggettivo ma sono alla mercé della lingua, mezzo d’espressione della loro società. Il fatto è che gran parte del mondo reale è modellata inconsciamente secondo le abitudini linguistiche del gruppo e noi vediamo e sentiamo guidati dalle abitudini linguistiche della nostra società che ci predispone verso certe scelte nella nostra interpretazione.

Benjamin Lee Whorf
Queste tesi furono riprese da Lee Whorf e quando la linguistica americana parla di ‘ipotesi di Whorf’ si riferisce al fatto che è il nostro linguaggio a fornirci la forma dell’esperienza che pensiamo di avere del mondo e che i fatti sono diversi per ogni parlante perché i suoi strumenti linguistici gli forniscono modi diversi di esprimerli (Whorf stava portando avanti le sue ricerche linguistiche sugli amerindiani). È in tal senso che Whorf parla di ‘relatività linguistica’ e che è impossibile tradurre il significato totale di un enunciato del XIV sec. quale lo si percepiva all’epoca. Da qui la vera tesi di Whort: la nostra lingua suddivide il mondo riducendo in frammenti il continuo fluire dell’esistenza e seziona la natura in molti modi diversi, secondo linee tracciate dai nostri idiomi.
Whorf ha contribuito così a dimostrare che gli uomini non vedono sempre il mondo nello stesso modo e che il linguaggio ora facilita ora ostacola l’appercezione del mondo esterno.

Jost Trier
Ricorrendo all’esempio della denominazione dei colori in greco, Leo Weisgerber ha mostrato come la ‘visione del mondo’ riflessa in una lingua…


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[1] Ed ecco i lessici europei riempirsi di termini arabi (durante le crociate), amerindiani, russi (dalla fine del XVIII s.), africani (colonizzazione).

Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (part I & II)



Parte Prima. Introduzione

1. La traduzione nel mondo moderno

La traduzione è sempre esistita, anche se nelle grandi enciclopedie o nei manuali di linguistica ancora non se ne fa cenno. Sulla proprietà letteraria della traduzione, poi, soltanto recentemente s’è avuta una qualche legislazione che la tuteli. Il fatto è che finché l’interprete restava un subalterno continuava ad essere un semplice ‘artigiano’.
Oggi non è più così, perché la traduzione è diventata un fenomeno di massa, come emerge dall’Index Translationum dell’Unesco (fondato nel 1932, ma attivo dal 1948) e dalla notevole importanza che ha assunto anche la traduzione cinematografica rendendo l’attuale traduzione una vera e propria attività industriale.

2. Qualche definizione

Nel XVI secolo, grazie all’umanista francese Etienne Dolet[1], si afferma il termine traducteur, che nel 1549, insieme al termine traduction, troverà spazio in tre capitoli dell’opera Deffence de la langue française del Du Bellay.

L’«interpres» e il «translateur»
Prima del XVI secolo, gli antichi termini francesi sono translater, translateur, translation, che appaiono nel XIII secolo.
Prima di questo periodo, infatti, vigeva il latino interpres, interpretari che riuniva nella stessa parola l’operazione compiuta sulla lingua orale e quella compiuta sulla lingua scritta. Dunque, sarà solo nel XII secolo che, con il termine francese truchement, ci sarà una prima distinzione del primo termine (interprete) dal termine translateur.
La fine della latinità indica quindi una la prima distinzione specifica tra l’interprete, che opera sulla lingua orale, e il traduttore, che opera sulla lingua scritta. Tale distinzione è valida tuttora perché relativa ad attività che si basano su metodi ben differenziati se non addirittura contraddittori.
Per dare un nome a tale attività, all’inizio dell’era moderna nascono nuovi termini che si rifanno tutti alla medesima metafora: ‘far passare’, ossia facilitare il passaggio da una lingua a un’altra, ‘trasportare’ in un’altra lingua il significato di un idioma, idea già nel latino tra-duco, nell’italiano tradurre, nel francese traduire.

Versione e traduzione
Distinzione legata all’esegesi religiosa, nel 1657 Bryan Walton, dottore in teologia a Cambridge, non confonde tra loro versione, versione interlineare, traduzione, interpretazione e parafrasi, forme di traduzione che entreranno nella retorica classica fino agli albori del XIX secolo.
Nell’Encyclopédie la versione è ‘l’interpretazione letterale di un’opera’, più aderente alle strutture della lingua d’origine e più asservita ai principi della sua costruzione analitica, mentre la traduzione bada maggiormente ai significati ed è più attenta a renderli nella forma più conveniente alla nuova lingua. Si riconosce qui la distinzione classica tra traduzione letterale e ‘le belle infedeli’, le traduzioni libere ma ben scritte, e anche tra traduzione scolastica e traduzione letteraria.
In conclusione, l’arte del tradurre presuppone la versione, che d’altronde fa parte dei primi tentativi di traduzione. Nell’uso moderno, tuttavia, si definirebbe traduzione il lavoro oggettivo, mentre la versione sarebbe una traduzione connessa con le scelte più soggettive del traduttore.

La traduzione moderna
Oggi quando si parla di traduzione si intende:
a)      la traduzione interlineare (posta fra le righe) o riga a riga (con testo a fronte). Sono sempre letterali, soprattutto la prima, mentre la seconda può avere un po’ di libertà ma sempre nei limiti della riga o del verso. Questi tipi di traduzione, se condannati da Paul Valery come ‘preparazioni anatomiche’, erano difese da Benedetto Croce, che le considerava semplici strumenti didattici destinati a facilitare la comprensione delle opere originali. Queste traduzioni letterali devono comunque essere sempre accompagnate dai testi originali;
b)      la traduzione letterale (ossia parola per parola). Corrisponde alla versione come la intendevano i traduttori della Sacra Scrittura (per esigenze teologiche), gli Enciclopedisti e Croce. Questa forma non verrà qui presa in considerazione;
c)      la traduzione moderna propriamente detta, ossia il risultato di tutta l’esperienza passata, cioè cerca di rispettare la lingua in ogni parola, in ogni sua costruzione, in tutti i suoi modi stilistici. Si preoccupa anche di non violare la lingua in cui si traspone, rispettando lo spirito della lingua originale e quella in cui si traduce, senza aggiungere né togliere nulla.

La traduzione come metafora
Oggi che si tende a ridurre la traduzione ad una serie di operazioni automatiche (scientifiche) non sembra inutile confrontare il termine tradurre con i suoi usi metaforici.
Naturalmente, nessuno pensa che tradurre sia un’operazione simile a quella per cui un buon attore, o un buon pianista, interpretano una parte o un pezzo musicale.
Certo, si può dire che uno stenografo ‘traduce’ una lettera in simboli stenografici, un telegrafista ‘traduce’ in alfabeto Morse, un testo in Braille ‘traduce’ un testo stampato, ma queste operazioni si servono del verbo tradurre soltanto in senso figurato.
a)      Quando un messaggio orale passa alla sua forma scritta si parla di trascrizione, ma meglio parlare di notazione (scriptio in latino), perché ‘trascrizione’ suggerisce l’idea del passaggio da una lingua ad un’altra;
b)      Quando un messaggio scritto passa da una scrittura a un’altra è un’operazione ben diversa, con regole ben definite. Si tratta infatti di un cambiamento di codice, come il passaggio da un testo scritto a uno stenografico, ad uno in alfabeto Morse o in caratteri Braille. Queste operazioni si chiamano translitterazioni, se il passaggio è fatto lettera per lettera come, ad es., il passaggio dai caratteri cirillici a quelli latini. Tutte queste operazioni ben diverse dalla traduzione, per cui non si ha bisogno di ricorrere al significato. Infatti, lo stenografo, l’operatore Morse o Braille, possono eseguire il loro lavoro senza comprendere neppure una parola del messaggio translitterato, mentre il lavoro del traduttore esige che si risalga al significato della lingua originale per renderlo poi nella lingua in cui traduce.
Ecco allora che, quando si fa uso della parola tradurre, è bene attenersi a quanto suggerisce Emile Delavenay, che rifiuta la parola tradurre quando c’è passaggio da un sistema di simboli ad un altro e l’accoglie invece quando c’è trasposizione da una lingua ad un’altra[2].



Parte Seconda. Cenni storici

3. Interpreti e traduttori nell’antichità

Ancora non esiste una storia della traduzione, nonostante alcuni tentativi di Edouard Cary, segretario della FIT (Federazione Internazionale Traduttori), perché sarebbe un’opera immensa, dato che la traduzione è sempre esistita.

La traduzione proto-storica
Anche nelle tribù più isolate, l’uomo che traduce lo si ritrova sempre. Per l’etnografo austriaco Bernatzik, anche nelle popolazioni più arretrate, quasi tutti parlano la lingua dei vicini o c’è un indigeno che la conosce e se ne fa interprete. Quindi la figura dell’interprete si ritrova sempre: gli scribi in Asia Minore e nell’antico Egitto, gli uomini-interpreti della Cina e dell’India arcaiche.

La traduzione antica
Il primo tentativo di traduzione si manifesta inizialmente in Asia Minore con la redazione in liste bilingue di parole su tavolette di terracotta. Ma le prime riflessioni sull’arte del tradurre le ritroviamo a Roma, dove la letteratura si può dire è nata dalla traduzione. Già Cicerone, traducendo i Discorsi di Demostene, pone il problema di fondo della traduzione: se bisogna essere fedeli alle parole del testo (traduzione letterale) o al pensiero contenuto nel testo (traduzione libera o ‘bella infedele’). La soluzione di Cicerone è già l’opzione fondamentale: «Li ho resi non da semplice traduttore (ut interpres) ma da scrittore (sed ut orator). Non ho dunque ritenuto necessario rendere ogni parola con una parola e tuttavia ho conservato intatto il significato essenziale, perché al lettore di queste parole non interessa il numero ma per così dire il peso».
Orazio ribadisce lo stesso precetto e si esprime negli stessi termini per definire l’adattamento più che la traduzione. Prima di Orazio la traduzione dei Settanta (III sec. a.C.) dell’Antico Testamento era stata un’impresa non indifferente, a parte le critiche di san Gerolamo. Nell’era cristiana Evagro, amico di san Gerolamo, dimostra quanto ormai fosse diffuso il giudizio di Cicerone: «Se la traduzione viene fatta letteralmente nasconde il significato del testo». Ma sarà san Gerolamo a chiudere il periodo antico con un trattato sulla traduzione, il De optimo genere interpretandi, tutto improntato sulle tesi di Cicerone che gli meritò il titolo di Patrono dei traduttori (V. Larbaud, 1946).

4. La traduzione nel Medioevo

Fin dall’antichità, dunque, la traduzione ha un suo luogo definito come attività letteraria e prosegue nel Medioevo, poiché la traduzione resta legata a esigenze pratiche. Cristianizzare, infatti, significava tradurre. Così l’Inghilterra ha il suo Venerabile Beda (VIII sec.), l’Irlanda i suoi monaci di Bangor, la Germania il suo Notker (monastero di San Gallo), i paesi slavi i loro Cirillo e Metodio, che crearono l’alfabeto cirillico. D’altronde, il passaggio dal latino alle lingue neolatine si compie con una lunga serie di traduzioni. Così il primo testo letterario francese Cantilene de sainte Eulalie (883) è l’adattamento in volgare di un cantico latino. Anche la traduzione profana ha lasciato le sue tracce. Ricordiamo, ad esempio, il Serment de Strasbourg (842), l’atto di nascita ufficiale della nazione francese, sarebbe la traduzione romanza di una minuta diplomatica in latino.
Altra ricca serie di traduzioni medievali è quella araba, quando, con l’aiuto di qualche ebreo, si traducono testi ebraici, ma più spesso greci, di opere di medici, filosofi, astronomi, e molte opere greche torneranno a vivere a Cordoba (dove visse Averroé) e Toledo.
Alla fine del XII sec. Maimonide, a commento di questa impresa araba, scrisse riprendendo Cicerone e san Gerolamo: «Chi vuol tradurre e si propone di rendere una data parola con una sola parola che le corrisponda, durerà molta fatica... Il traduttore invece deve chiarire lo svolgersi del pensiero e può giungervi solo cambiando a volte tutto il complesso, rendendo un solo termine con più parole o più parole con una sola, finché il pensiero sia chiaro e l’espressione comprensibile».

La scuola di Toledo
Incrocio tra cultura araba, ebraica e cristiana Toledo fu (dal XII sec.) la prima vera scuola di traduttori. L’opera di Tolomeo, Averroé, Maimonide e il Corano vengono colà tradotti in latino. Tra i traduttori, spagnoli, inglesi e ebrei, emerge Gerardo da Cremona.

Dante e la traduzione
Sebbene nessun paese offra nulla di simile alla scuola di Toledo, non mancano testimonianze sull’attività dei traduttori. Dante, ad esempio, nel Convivio riprende sviluppandolo san Gerolamo: «Se qualcuno non capisce come il fascino di una lingua sia alterato dalla traduzione, provi a tradurre Omero in latino parola per parola». E aggiunge: «Nulla cosa per legame armonizzata si può in altra trasmutare senza rompere tutta la sua dolcezza e armonia».

5. Il Rinascimento e il rinnovamento della traduzione

Il passaggio al Rinascimento segna un vero cambiamento qualitativo e quantitativo. S’è visto come nella traduzione religiosa il Medioevo si attenesse al metodo letterale per una forma di rispetto reverenziale verso le Sacre Scritture. San Gerolamo d’altronde..


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[1] E. Dolet, Manière de bien traduire d'une langue en l'autre, 1540.
[2] E. Delavenay, La machine à traduire, Puf, Paris 1959.

Pietro Maturi, I suoni delle lingue (capp. III & IV)



Capitolo 3 - I suoni dello spagnolo, del francese, dell’inglese, del tedesco

1. Lo spagnolo

1.1. Le vocali

II sistema vocalico spagnolo è ancora più semplice di quello eptavocalico italiano, e include soltanto cinque vocali.
Infatti, mentre l'italiano distingue (tra le vocali anteriori e posteriori) una vocale medio-bassa [ɛ ɔ] da una medio-alta [e o], lo spagnolo possiede soltanto un'unica vocale media anteriore e un'unica vocale media posteriore.
Queste vocali vengono trascritte con [e o] corrispondenti alle medio-alte, anche se la loro realizzazione fonetica può essere media o anche medio-bassa. Nelle trascrizioni fonetiche larghe, tuttavia, queste variazioni vengono trascurate.
I cinque simboli sono pertanto quelli riportati in figura (anche qui, come per l'italiano, è più comoda la rappresentazione di tipo triangolare): 

Esempi: [i] in cinco 'cinque', [e] in vengo 'vengo', [a] in cama 'letto', [o] in ocho 'otto', [u] in hube 'ebbi'.

1.2 Le consonanti


Occlusive, fricative e affricate
II consonantismo dello spagnolo iberico presenta le tre coppie di occlusive bilabiali, alveolari e velari sorde e sonore [p b; t d; k g], un ricco repertorio di fricative [β; f; θ ð; s z; x ɣ] e una sola consonante affricata [tʃ]. Mentre alcuni tra questi foni occlusivi e fricativi possono presentarsi in ogni posizione, altri possono apparire solo in determinati contesti:
• le consonanti occlusive sorde [p t k] possono occorrere in qualsiasi contesto, sia in posizione iniziale (pan 'pane'), sia in posizione intervocalica (supe 'seppi'), sia dopo nasale o altra consonante (tiempo 'tempo');
• le consonanti occlusive sonore [b d g] possono invece apparire solo in posizione iniziale assoluta (bueno 'buono', gato 'gatto'), oppure dopo nasale (hombre 'uomo'). Invece, in posizione intervocalica sia all'interno sia a inizio di parola quando questa sia preceduta da vocale, le occlusive sonore sono sostituite dalle corrispondenti fricative sonore (v. sotto);
• le fricative sorde [f θ s x] possono apparire in qualunque posizione, cioè a inizio di parola (fuerte 'forte'), tra due vocali (casa 'casa') e dopo nasale o altra consonante (infierno 'inferno'). La fricativa alveolare sorda [s] seguita da consonante sonora è però sostituita dalla corrispondente sonora [z] (v. sotto), mentre resta sempre sorda in posizione intervocalica (come nelle varietà centro-meridionali dell'italiano).
Si osservi infine che mancano del tutto in spagnolo standard le fricative sorde [ʃ h];
• le fricative sonore [β ð ɣ] si trovano in posizione intervocalica sia all'interno di parola (nueve 'nove'), sia a inizio di parola preceduta da vocale (a ver 'a vedere'); si trovano inoltre prima e dopo altra consonante non nasale (abro 'apro'). La fricativa alveolare sonora [z] appare invece soltanto quando è seguita da consonante sonora della stessa
parola o della parola seguente (isla 'isola', las madres 'le madri'): in altri termini si può dire che la fricativa alveolare seguita da consonante ne assume il grado di sonorità ed è sorda se la consonante seguente è sorda, sonora se questa è sonora. Si tratta di un fenomeno di assimilazione di sonorità. Mancano nello spagnolo standard le fricative sonore [v ʒ];
• l'unica affricata dello spagnolo, la prepalatale sorda [tʃ], può trovarsi in qualunque posizione (ocho [‘otʃo] 'otto'). Mancano le affricate [ts], [dz] e [dʒ].

Nasali, laterali, vibranti e approssimanti
• Le nasali [m ɱ n ɲ ŋ] sono distribuite in modo differente nei diversi contesti: a inizio di parola o tra due vocali si incontrano unicamente la labiale [m] (mano 'mano', humo 'fumo'), l'alveolare [n] (nuevo 'nuovo', uno 'uno'), la palatale [ɲ] (ñoño 'goffo, bigotto').
Davanti a consonante invece vige (come in italiano, vd. pp. 77-78) una regola di assimilazione di luogo di articolazione che seleziona la nasale con lo stesso luogo di articolazione della consonante seguente, per cui se la consonante seguente è una bilabiale, la nasale sarà sempre una bilabiale, e così via (lampara 'lampada', entero 'intero'). Si osservi che la nasale palatale [ɲ] è sempre breve (a differenza dell'italiano, vd. p. 77).
• Le laterali dello spagnolo sono l'alveolare [1] e la palatale [ʎ] (luna ‘luna', llama [‘ʎama] 'fiamma'). Anche la laterale palatale [ʎ] è sempre breve.
• La vibrante [r] è l'unica consonante che in spagnolo si presenta sia come consonante breve [r] sia come consonante lunga [rr]. Tra due vocali può essere breve o lunga, con funzione distintiva (pero 'però', perro ‘cane'); davanti o dopo consonante è sempre breve (carne 'carne', padre 'padre'); in posizione iniziale è sempre lunga (rosa ['rrosa] 'rosa').
• Le approssimanti [j w] si possono trovare in qualunque posizione nella parola seguite da vocale (hierro [‘jerro] 'ferro', huevo ['weβo] 'uovo', agua ['aɣwa] 'acqua'). L'approssimante palatale [j] si trova anche a fine di parola dopo vocale (hoy [oj] 'oggi').

Lunghezza consonantica
In generale, ricordiamo che in spagnolo le consonanti sono sistematicamente brevi, a eccezione, come segnalato, della [r], e che sono dunque brevi anche [ɲ] e [ʎ] e tutte le consonanti iniziali e finali (p. es. a Sevilla [a se'βiʎa] non [a sse'βiʎʎa] 'a Siviglia', los amigos [los a'miɣos] non [loss a'miɣoss] 'gli amici').




2. Il francese

2.1 Le vocali

A differenza dell'italiano e dello spagnolo, il francese possiede un sistema vocalico complesso, con ben sedici foni vocalici. Esso include infatti dodici vocali orali: tutte le otto vocali cardinali primarie [i e ɛ a ɑ ɔ o u], tre delle vocali cardinali secondarie, ossia le anteriori labializzate [y ø œ], e la vocale centrale media [ǝ], oltre a quattro diverse vocali nasali [ɛ œ ɑ ɔ][1].
Il trapezio delle vocali orali del francese, nel quale porremo fianco a fianco le vocali non labializzate e le labializzate pronunciate nello stesso luogo di articolazione, ha dunque la struttura:
Esempi: [i] in Paris 'Parigi'; [e] in été 'estate'; [ɛ] in mère 'madre'; [a] in papa 'papà' [ɑ] in pàté 'pasta'; [ɔ] in fort 'forte'; [o] in beau 'bello'; [u] in nous 'noi'; [y] in nu 'nudo'; [ø] in jeu 'gioco'; [œ] in cœur 'cuore'; [ǝ] in je 'io'.

Le quattro vocali nasali del francese (tutte medio-basse o basse) si dispongono invece nel trapezio vocalico nel modo seguente:
Esempi (NB. manca la tilde!): [ɛ] in vin 'vino' [œ] in un 'uno' [ɔ] in bon 'buono' [ɑ] in blanc 'bianco'.

2.2 Le consonanti


Occlusive e fricative
II consonantismo francese include tre coppie di occlusive sorde e sonore [p b; t d; k g] e tre coppie di fricative sorde e sonore [f v; s z; ʃ ʒ], oltre alla fricativa uvulare sonora [ʁ]. Non possiede alcuna affricata.
Occlusive sorde e sonore: p. es. pére [pɛʁ] 'padre', bière [bjɛʁ] 'birra', guerre [gɛʁ] 'guerra'. Queste consonanti, quando sono in posizione finale di parola, hanno la tendenza ad 'assimilare' il proprio coefficiente di sonorità a quello della consonante iniziale della parola seguente, cioè se una sonora è seguita da una sorda, la sonora si desonorizza; se una sorda è seguita da una sonora, la sorda si sonorizza. Per esempio, se la parola langue [lɑg] ‘lingua' è seguita da parola che inizia con una consonante sorda, come la parola française [fʁɑ‘sɛz] 'francese', la consonante finale [g] si desonorizza, diventando [g][2]: [lɑg fʁɑ‘sɛz].
Fricative sorde e sonore: p. es. faire [fɛʁ] 'fare', verre [vɛʁ] 'bicchiere', zèro [ze’ʁo] 'zero'. Anche per le fricative vige la stessa regola di assimilazione descritta per le occlusive. Per esempio la [f] di neuf [nœf] 'nove', se seguita
da garoçns [gaʁ’sɔ] 'ragazzi', diventa [f]: [nœf gaʁ’sɔ][3]. La fricativa uvulare sonora [ʁ] non ha un equivalente sordo, ma si desonorizza in fine di parola se è preceduta da consonante sorda, come in quatre [katʁ] 'quattro'. Manca del tutto in francese la fricativa laringale [h] nonostante la frequenza della lettera h nell'ortografia francese.

Nasali, laterali e approssimanti
• le nasali [m n ɲ] possono occorrere in qualunque posizione. Ad esempio a inizio di parola (moi [mwa] 'io'; nous [nu] 'noi'), tra vocali (ami [a'mi] 'amico'), in fine di parola (homme [ɔm] 'uomo', reine [ʁɛn] 'regina'). La nasale velare [ŋ] si trova solo in fine di parola in prestiti stranieri come ring [ʁiŋ] 'ring’.
Si osservi che dopo vocale nasale le lettere n e m presenti nell'ortografia francese non vengono pronunciate nello standard: France [fʁɑs] ‘Francia', champ [ʃɑ] 'campo', cinq [sɛk] 'cinque'.
• di laterali il francese ne ha una sola, la alveolare [1], come in lune [lyn] 'luna', belle [bɛl] 'bella'.
• le tre approssimanti del francese sono la palatale [j], la labiopalatale [ɥ] e la labiovelare [w]. Tutte e tre possono occorrere in posizione prevocalica: pied [pje] 'piede', lui [lɥi] 'lui', voix [vwa] 'voce'.
La sola palatale [j] si trova anche dopo vocale, in posizione finale di sillaba o di parola: paille [pɑj] 'paglia', feuille [foej] 'foglia', feuilleter [foej'te] 'sfogliare'.

Lunghezza consonantica
In francese le consonanti sono sempre brevi, indipendentemente dall'ortografia: p. es. assez [a'se] 'abbastanza', aller [a’le] 'andare', frapper [fʁa'pe] 'colpire'.
Anche [ɲ] e tutte le consonanti iniziali e finali sono sempre brevi: p. es. baigner [bɛ‘ɲe] non [bɛɲ‘ɲe] 'bagnare', à Paris [a pa'ʁi] non [a ppa'ʁi] 'a Parigi'. L'allungamento occasionale di una consonante si osserva però per fini enfatici: c'est merveilleux [s ɛ mmɛʁvɛ’jø].



3. L'inglese

3.1. Le vocali

II vocalismo inglese è estremamente complesso per il numero anche qui molto alto dei foni vocalici (12), ma anche per il ruolo che in inglese assume la durata e la presenza di numerosi dittonghi (8), oltre che all'esistenza di più varietà standard con sistemi vocalici parzialmente diversi (qui ci limiteremo alla varietà britannica).
Sono presenti in inglese cinque vocali cardinali primarie [i ɛ ɑ ɔ u], la vocale cardinale secondaria posteriore medio-bassa [ʌ], e le quattro vocali non cardinali [ɪ æ ʊ ǝ].
Alcuni foni vocalici dell'inglese sono sistematicamente lunghi [i: u: ɑ:]; altri all'opposto sono sempre brevi [ɛ æ ɪ ʊ ʌ]; altri ancora possono essere brevi o lunghi [ǝ/ǝ:  ɔ/ɔ:].
Ecco l'intero repertorio delle vocali brevi e lunghe dell'inglese nello schema trapezoidale:
Esempi:
Vocali brevi

[ɪ] in bit 'morso'
[ɛ] in bet 'scommessa'
[æ] in bat 'pipistrello'
[ʌ] in but 'ma'
[ɔ] in gone 'andato'
[ʊ] in book 'libro'
[ǝ] in again 'di nuovo'
 
Vocali lunghe   

[i:] in beat 'battere'
[ǝ:] in bird 'uccello'
[ɑ:] in half  'metà'
[ɔ:] in horse 'cavallo'
[u:] in boot 'stivale'
Insieme a questi dodici foni vocalici brevi e lunghi l'inglese possiede una serie di ben otto dittonghi:
[aɪ], [eɪ], [ɔɪ], [aʊ], [ǝʊ], [ɪǝ], [ɛǝ], [ʊǝ].
Come si può osservare, appaiono nei dittonghi i foni [a] e [e], che non sono inseriti nello schema trapezoidale vocalico in quanto non ricorrono mai in inglese se non all'interno di questi dittonghi. In fig. 3.5 sono rappresentati i ‘percorsi’ articolatori degli otto dittonghi dell'inglese.

Esempi:
[aɪ] in side 'lato'
[eɪ] in day 'giorno'
[ɔɪ] in boy 'ragazzo'
[aʊ] in out 'fuori'
[ǝʊ] in no 'no'
[ɪǝ] in beer 'birra'
[ɛǝ] in there 'là'
[ʊǝ] in poor 'povero'.



3.2 Le consonanti


Occlusive, fricative e affricate
L'inglese presenta tre coppie di occlusive [p b; t d; k g], quattro coppie di fricative [f v; θ ð; s z; ʃ ʒ] alle quali si aggiunge la fricativa laringale sorda [h], nonché la coppia di affricate prepalatali [tʃ  dʒ].
Occlusive: le occlusive sorde sono generalmente aspirate, a meno che non siano precedute da una [s], mentre le sonore non presentano questa caratteristica. Per es., pen [p'ɛn] 'penna', ten [t'ɛn] 'dieci', can [k'æn] 'potere'; spend [spɛnd] 'spendere', stand [stænd] 'stare in piedi', sky [skaɪ] 'cielo'; boy [bɔɪ] 'ragazzo'.
Fricative: ad es., fan [fæn] ‘ventaglio', van [væn] 'furgone', seal [si:l] 'foca', zeal [zi:l] 'zelo', thin [θɪn] 'sottile', this [ðis] 'questo', show [ʃǝʊ] 'mostrare', home [hǝʊm] 'casa'.
Affricate: per es., Charles [tʃɑ:lz] 'Carlo', George [dʒɔ:dʒ] 'Giorgio'.
Non sono considerate affricate le sequenze [ts] e [dz] di cats [kæsts] 'gatti' e beds [bedz] ‘letti', che in inglese vengono analizzate come sequenze biconsonantiche formate da occlusiva + fricativa.

Nasali, laterali e approssimanti
Nasali: le tre nasali dell'inglese [m n ŋ] hanno una diversa distribuzione: la bilabiale e l'alveolare possono occorrere in ogni posizione, mentre per la velare [ŋ] è esclusa la posizione iniziale di parola.
Per es., map [maep] 'mappa', nap [naep] 'sonnellino'; hammer ['haemǝ] 'martello', honour ['ɔnǝ] 'onore'; come [k'ʌm] ‘venire', son [sʌn] 'figlio', song [sɔŋ] 'canzone'. Si noti l'assenza in inglese della nasale palatale [ɲ]: per es., design [dɪ'zaɪn] 'disegno'.


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[1] Tutte sovrastate da tilde  ~ .
[2] NB. Nella nuova g c’è un segno diacritico (un pallino sotto la lettera).
[3] NB. Controlla sul testo i segni diacritici.