giovedì 3 settembre 2015

Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (part III)



Parte Terza. Problemi moderni

9. Linguistica e traduzione
Finora la linguistica non s’era mai occupata di traduzione. Il termine non compare né in Saussure né in Jespersen. Fu solo con le prime ricerche sulla traduzione automatica che si creò la necessità di considerare la traduzione da un punto di vista linguistico. Solo nel 1959 Jakobson le ha dedicato alcune pagine, richiamando l’attenzione che senza la traduzione la linguistica non sarebbe mai esistita.

Tre traduttori pongono il problema
È lecito dunque considerare la traduzione un’operazione che rientra nella linguistica? Nel suo manuale (1958) Vinay chiede intanto che la traduzione venga considerata legata alla linguistica, mentre Fedorov (1953) difende la necessità di creare una teoria scientifica della traduzione fondata ‘soprattutto’ sulla linguistica perché:
1)      la traduzione è un’attività particolare e importante e come tale tende a liberarsi dell’empirismo artigianale e costruirsi una teoria;
2)      una teoria della traduzione dovrebbe essere la generalizzazione delle osservazioni compiute su traduzioni particolari e una volta stabilita dovrebbe escludere qualsiasi soluzione arbitraria;
3)      come ogni fenomeno la traduzione può essere studiata da molti punti di vista (storico, letterario, psicologico ecc.) ma una teoria della traduzione deve fondarsi sullo studio linguistico, non deve prescindere dai fatti di lingua;
4)      con l’analisi linguistica dei fatti di traduzione non si vuol certo pretendere di spiegare ogni aspetto di quella attività né tantomeno i suoi problemi storici, letterari, ideologici, che tuttavia richiedono una solida base linguistica;
5)      che una teoria della traduzione risolva, prima di ogni altra cosa, certi problemi linguistici, fondamentali per la teoria stessa.
Dopo aver affermato la priorità dell’analisi linguistica in fatto di traduzione, Fedorov cerca di darle una collocazione. La ‘scienza della traduzione’ si lega da una parte alla linguistica generale, dall’altra alla lessicologia, alla grammatica e alla stilistica sotto tutti i loro aspetti, fra cui anche quello fonetico. Inoltre, ciò che distingue la teoria della traduzione è l’attitudine di considerare i fatti attraverso due lingue, mettendo così in luce l’intero sistema di corrispondenze esistenti fra loro.
Ma tra tutte le discipline linguistiche, la teoria della traduzione deve avere rapporti più intimi con la stilistica, anche se, considerando che i problemi di una traduzione nascono sempre dal confronto tra due lingue, di stilistica comparata, come in fondo intende Vinay.
Le prime critiche sovietiche furono formulate dal punto di vista letterario: l’attenzione riservata al momento linguistico deprimevano quelle letterarie.
Più compiutamente Cary opponeva la tesi secondo cui la traduzione non è un’operazione linguistica ma un’operazione sui generis irriducibile ad ogni altro ambito scientifico. Quindi la traduzione letteraria non è un’operazione linguistica ma un’attività letteraria; la traduzione poetica è un’attività poetica; la traduzione teatrale un’attività drammaturgica ecc. Per tradurre una poesia bisogna dunque essere poeti, un’opera teatrale scrittori di teatro… per essere interpreti, aggiunge Cary, bisogna essere psicologi, diplomatici, uomini di teatro, mimi ecc.
Alle critiche sovietiche Fedorov rispose di aver effettivamente posto il problema della traduzione artistica in modo troppo ristretto, ma aggiunge che: «Pur rendendo giustizia all’importanza delle questioni letterarie nello studio della traduzione artistica, mi occupo essenzialmente dell’aspetto linguistico del problema, ancora troppo esplorato».

10. Traduzione e significato (imporante)

   Per lunghi secoli i traduttori hanno incontrato difficoltà che riguardavano il senso delle parole da tradurre. Trovavano sempre una soluzione, ma empirica: l’oggetto denominato che non esisteva nella lingua del traduttore veniva sostituito con un imprestito o con un calco, seguiti da una nota esplicativa[1]; se il numero degli imprestiti e dei calchi era esagerato, se ne trasportava il senso senza introdurre la parola, descrivendo in nota la nozione designata dalla parola in originale. È il modo di procedere classico degli etnografi: ad es. C. Levi-Strauss in Tristi tropici (1955) usò circa 300 termini stranieri (noti, tradotti o spiegati in nota); così J. Malaurie, studioso di tribù esquimesi.
Di tutt’altra natura è invece il problema dei transferts di significato, considerato la grande difficoltà del traduttore: è il problema dell’espressività di certe parole, problema legato alla traduzione letteraria e poetica. Come fare infatti per rendere il fascino indefinibile di una particolare parola francese? Si moltiplicano dunque le espressioni tipo ‘in italiano nel testo’ che un autore mette quando nella parola vi trova qualcosa di intraducibile.
Questi problemi, dunque, senza dubbio interessanti ma di minor peso, hanno mascherato per secoli agli occhi dei traduttori i veri problemi del significato.

Ferdinand de Saussure
In realtà, il perché del significato delle parole è un vecchio problema filosofico che ha percorso Platone, Descartes, Leibniz, Peirce, ma è solo nel linguista statunitense William Whitney (prima di Saussure) che lo vediamo formulato in termini linguistici.
Saussure lo riprende, mettendo prima in luce la concezione tradizionale, la sottintesa teoria per cui una lingua è una specie di ‘nomenclatura’ in cui viene attribuito un nome a ogni cosa o concetto già dati in precedenza, per cui non esiste problema di significato che non sia solubile.
Saussure dimostra invece che il rapporto di significazione che unisce una cosa o un concetto a una parola non è così semplice e che la loro denominazione non ubbidisce a leggi universali. Infatti, se il francese mouton indica le due nozioni di animale e della sua carne, l’inglese le distingue (sheep e mutton). Ciò significa che ogni parola fa parte di un sistema e non di una nomenclatura, in cui risulterebbe isolata e come un’etichetta ben definita. All’interno di una lingua, infatti, tutte le parole con significato analogo si limitano reciprocamente e i sinonimi, quindi, hanno valore proprio solo se contrapposti tra loro. Ciò significa che noi cogliamo non le idee già date, ma i valori che emanano dal sistema. Quando si dice ch’essi corrispondono a dei concetti, si sottintende infatti ch’essi sono definiti negativamente, cioè d’essere ciò che gli altri non sono.
Saussure non va oltre: è ancora l’epoca della psicologia classica in cui si crede sull’ipotesi di una natura umana eterna. Tuttavia suggerisce che la suddivisione dell’universo materiale in cose e dell’universo mentale in concetti non è un’operazione soggetta a un’unica legge universale. Tale suddivisione infatti può compiersi a mille livelli diversi: ad esempio, nei gruppi nomadi del Sahara che vivono di allevamento di cammelli, lo spazio semantico esaurito dalle tre povere parole europee (cammello, cammella, cammellino) è coperto da ben sessanta termini per distinguere cose che noi invece confondiamo. Ogni civiltà dunque suddivide il mondo in oggetti secondo i propri bisogni: dato che alleviamo ancora cavalli, ci sono sei termini che li indicano e li distinguono e poiché non alleviamo rondini tutte le rondini sono semplicemente rondini.
Saussure apre così il grande dibattito della linguistica sul problema del senso. E nella sua analisi i traduttori avrebbero trovato di che inquietarsi perché mostrava che il problema della traduzione non era legato ad un preteso ‘genie des langues’ né a pretese ‘ricchezze’ o ‘povertà’ di certi idiomi bensì dalla descrizione di tutta una civiltà di cui la lingua è espressione.
Saussure giustificava tuttavia le soluzioni empiriche dei traduttori: l’imprestito come il calco erano per lui legittimi. Quanto alla traduzione parola per parola, antica utopia di un’epoca che credeva ancora nell’unità dell’universo, essa era condannata e non per ragioni estetiche ma per ragioni epistemologiche: tale traduzione è impossibile perché ogni gruppo sociale fa l’inventario delle cose del mondo in modo diverso e le ‘nomenclature’ non possono quindi mai corrispondere. Tradurre era dunque più difficile di quanto si fosse creduto, ma non impossibile.

Louis Hjelmslev
Con Hjelmslev la critica alla nozione di significato si fa più radicale e in termini puramente linguistici. Prendendo spunto da Saussure, attacca la concezione secondo cui ‘un segno è anzitutto il segno di qualche cosa’: il segno linguistico non è qualcosa che indichi un contenuto esterno al linguaggio ma è un’entità generata dalla relazione fra un’espressione e un contenuto. L’esempio tipico di Hjelmslev è quello di mostrare che non esistono concetti di colori anteriori alle lingue che li denominano.
Se ne deduce la dimostrazione che le lingue riducono il mondo esteriore in oggetti o concetti secondo schemi irrimediabilmente diversi e che non esistono cose o concetti eterni e universali già dati prima di qualsiasi denominazione linguistica. Le diverse lingue dunque analizzano il mondo in modo arbitrario.
Su questo schema Hjelmslev moltiplica le sue analisi studiando la denominazione di legno nelle lingue europee, la nozione di numero grammaticale traendone conclusioni epistemologiche draconiane: l’universo è in se stesso inaccessibile alla conoscenza; esso non possiede un’esistenza scientifica al di fuori del modo con cui se ne parla.
Per indicare ciò che qui noi chiamiamo universo, Hjelmslev usa il vocabolo purport, che sta a significare tutto quanto c’è nella testa di chi parla.
Tali concezioni negherebbero qualsiasi possibilità di tradurre se non fossero attenuate, e a volte contraddette, da altre tesi. La sua posizione sarebbe più corretta infatti se la si modificasse in: il significato (purport) non può avere esistenza linguistica se non rappresentando la sostanza linguistica di una forma linguistica.
E poiché lo studio del contenuto del linguaggio non è compito della linguistica ma di altre scienze esiste dunque la possibilità di accostarsi al purport per altra via senza l’ausilio della linguistica. Tuttavia è importante che i traduttori non dimentichino mai l’analisi dei fatti linguistici perché non si è mai sicuri che l’analisi della realtà di cui parla una lingua corrisponda a quella della lingua usata nel tradurre.

Leonard Bloomfield
Anche Bloomfield, fondatore della scuola di Yale, aveva tentato di eliminare dalla linguistica il ricorso ai significati.
Bloomfield, da parte sua, lo fa cercando di analizzare il linguaggio in funzione del behaviorismo, cioè attraverso la pura descrizione del comportamento del parlante e dell’ascoltatore, sperando di eliminare ogni riferimento di natura psicologica. Pretendeva dunque di ignorare quel che noi chiamiamo coscienza, immagini mentali, ecc., tutte realtà non linguistiche, inaccessibili al linguista e che non si possono mettere in evidenza attraverso mezzi puramente linguistici. Il linguista dunque si occupa di segnali linguistici. Non ha competenza per problemi di psicologia o di fisiologia e le sue scoperte avranno più valore per lo psicologo quanto meno distorsioni avranno subito da supposizioni preconcette. Ne consegue che il significato di una forma linguistica è la situazione in cui l’enuncia il parlante e la risposta ch’esso ottiene dall’ascoltatore; che il significato di un’enunciazione per un parlante non è niente di più del risultato delle situazioni in cui questi ha concepito tale forma.
Simile definizione, fondata sulla nozione di situazione sconvolge profondamente la nozione di senso, perché non ci sono mai situazioni uguali; perché per poter definire esattamente il senso di un enunciato la situazione dev’essere corredata da una conoscenza di tutto quel che c’è nel mondo del parlante; perché la conoscenza esatta dei significati implicherebbe l’onniscienza e quindi la scienza dei significati, la semantica, è il punto debole dello studio del linguaggio.
Preso alla lettera, sembrerebbe che Bloomfield neghi ogni possibilità di traduzione per l’impossibilità di accedere al senso completo degli enunciati. In realtà Bloomfield è stato meno intransigente: anzitutto nella comunicazione delle situazioni vi sono aspetti che non hanno alcuna importanza semantica (se dico ‘ho visto una mela’ l’ascoltatore per capire non ha bisogno di saperne la grandezza, il colore, ecc: il linguaggio traduce infatti, di una situazione, solo la parte socializzata e utile alla comunicazione); inoltre, possiamo definire il significato di una forma linguistica quando esso si riferisce a qualcosa di cui si possiede conoscenza scientifica.
Bloomfield dunque non nega la possibilità di accedere ai significati linguistici e quindi tradurli, ma ha permesso di prendere coscienza delle difficoltà che si incontrano quando vogliamo delimitare la superficie esatta dello stesso enunciato per parlanti e ascoltatori diversi. Così, contribuendo a smantellare l’antica certezza che si potesse tradurre tutto, Bloomfield ha contribuito a perfezionare gli strumenti del traduttore.

11. Semantica e “visioni del mondo”

Wilhelm von Humboldt
Prima di Saussure la nozione di significato in linguistica avrebbe potuto essere scossa dalle teorie di von Humboldt, legate a quella corrente del pensiero tedesco sull’anima popolare e sulla creazione di valori ideali da parte di questa, una concezione poco scientifica della innere, secondo la quale prima della lingua sarebbe esistita una sorta di stampo mentale peculiare a ogni popolo.
In effetti Humboldt richiamava l’attenzione su alcuni fatti del linguaggio. Ad esempio, che il linguaggio non è un ergon (una ‘cosa’) ma energeia (una ‘attività creatrice’); che la lingua è come un prisma deformante, diverso per ogni lingua, ma è anche lo strumento con cui l’uomo crea il suo modo di guardare. La visione del mondo di ogni uomo è data dunque dalla sua lingua. Nel primo quarto del Novecento le idee humboldtiane furono riprese e sviluppate più compiutamente.

Edward Sapir
Le tesi humboldtiane furono riprese dalla scuola di linguisti-antropologi americani allievi di Franz Boas e Sapir seppe chiarirle affermando che il linguaggio e le nostre abitudini di pensiero sono uniti fra loro inestricabilmente e che gli esseri umani non vivono solo nel mondo oggettivo ma sono alla mercé della lingua, mezzo d’espressione della loro società. Il fatto è che gran parte del mondo reale è modellata inconsciamente secondo le abitudini linguistiche del gruppo e noi vediamo e sentiamo guidati dalle abitudini linguistiche della nostra società che ci predispone verso certe scelte nella nostra interpretazione.

Benjamin Lee Whorf
Queste tesi furono riprese da Lee Whorf e quando la linguistica americana parla di ‘ipotesi di Whorf’ si riferisce al fatto che è il nostro linguaggio a fornirci la forma dell’esperienza che pensiamo di avere del mondo e che i fatti sono diversi per ogni parlante perché i suoi strumenti linguistici gli forniscono modi diversi di esprimerli (Whorf stava portando avanti le sue ricerche linguistiche sugli amerindiani). È in tal senso che Whorf parla di ‘relatività linguistica’ e che è impossibile tradurre il significato totale di un enunciato del XIV sec. quale lo si percepiva all’epoca. Da qui la vera tesi di Whort: la nostra lingua suddivide il mondo riducendo in frammenti il continuo fluire dell’esistenza e seziona la natura in molti modi diversi, secondo linee tracciate dai nostri idiomi.
Whorf ha contribuito così a dimostrare che gli uomini non vedono sempre il mondo nello stesso modo e che il linguaggio ora facilita ora ostacola l’appercezione del mondo esterno.

Jost Trier
Ricorrendo all’esempio della denominazione dei colori in greco, Leo Weisgerber ha mostrato come la ‘visione del mondo’ riflessa in una lingua…


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[1] Ed ecco i lessici europei riempirsi di termini arabi (durante le crociate), amerindiani, russi (dalla fine del XVIII s.), africani (colonizzazione).

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