Parte Terza.
Problemi moderni
9. Linguistica e traduzione
Finora
la linguistica non s’era mai occupata di traduzione. Il termine non compare né
in Saussure né in Jespersen. Fu solo con le prime ricerche sulla traduzione
automatica che si creò la necessità di considerare la traduzione da un punto di
vista linguistico. Solo nel 1959 Jakobson le ha dedicato alcune pagine,
richiamando l’attenzione che senza la traduzione la linguistica non sarebbe mai
esistita.
Tre traduttori pongono il problema
È
lecito dunque considerare la traduzione un’operazione che rientra nella
linguistica? Nel suo manuale (1958) Vinay
chiede intanto che la traduzione venga considerata legata alla linguistica,
mentre Fedorov (1953) difende la
necessità di creare una teoria scientifica della traduzione fondata
‘soprattutto’ sulla linguistica perché:
1) la traduzione è un’attività particolare e importante e
come tale tende a liberarsi dell’empirismo artigianale e costruirsi una teoria;
2) una teoria della traduzione dovrebbe essere la
generalizzazione delle osservazioni compiute su traduzioni particolari e una
volta stabilita dovrebbe escludere qualsiasi soluzione arbitraria;
3) come ogni fenomeno la traduzione può essere studiata
da molti punti di vista (storico, letterario, psicologico ecc.) ma una teoria
della traduzione deve fondarsi sullo studio linguistico, non deve prescindere
dai fatti di lingua;
4) con l’analisi linguistica dei fatti di traduzione non
si vuol certo pretendere di spiegare ogni aspetto di quella attività né
tantomeno i suoi problemi storici, letterari, ideologici, che tuttavia
richiedono una solida base linguistica;
5) che una teoria della traduzione risolva, prima di ogni
altra cosa, certi problemi linguistici, fondamentali per la teoria stessa.
Dopo
aver affermato la priorità dell’analisi linguistica in fatto di traduzione,
Fedorov cerca di darle una collocazione. La ‘scienza della traduzione’ si lega
da una parte alla linguistica generale, dall’altra alla lessicologia, alla
grammatica e alla stilistica sotto tutti i loro aspetti, fra cui anche quello
fonetico. Inoltre, ciò che distingue la teoria della traduzione è l’attitudine
di considerare i fatti attraverso due lingue, mettendo così in luce l’intero
sistema di corrispondenze esistenti fra loro.
Ma
tra tutte le discipline linguistiche, la teoria della traduzione deve avere
rapporti più intimi con la stilistica, anche se, considerando che i problemi di
una traduzione nascono sempre dal confronto tra due lingue, di stilistica
comparata, come in fondo intende Vinay.
Le
prime critiche sovietiche furono formulate dal punto di vista letterario:
l’attenzione riservata al momento linguistico deprimevano quelle letterarie.
Più
compiutamente Cary opponeva la tesi secondo cui la traduzione non è
un’operazione linguistica ma un’operazione sui generis irriducibile ad ogni
altro ambito scientifico. Quindi la traduzione letteraria non è un’operazione
linguistica ma un’attività letteraria; la traduzione poetica è un’attività
poetica; la traduzione teatrale un’attività drammaturgica ecc. Per tradurre una
poesia bisogna dunque essere poeti, un’opera teatrale scrittori di teatro… per
essere interpreti, aggiunge Cary, bisogna essere psicologi, diplomatici, uomini
di teatro, mimi ecc.
Alle
critiche sovietiche Fedorov rispose di aver effettivamente posto il problema
della traduzione artistica in modo troppo ristretto, ma aggiunge che: «Pur
rendendo giustizia all’importanza delle questioni letterarie nello studio della
traduzione artistica, mi occupo essenzialmente dell’aspetto linguistico del
problema, ancora troppo esplorato».
10. Traduzione e significato (imporante)
Per lunghi secoli i traduttori hanno
incontrato difficoltà che riguardavano il senso delle parole da tradurre.
Trovavano sempre una soluzione, ma empirica: l’oggetto denominato che non
esisteva nella lingua del traduttore veniva sostituito con un imprestito o con
un calco, seguiti da una nota esplicativa[1]; se
il numero degli imprestiti e dei calchi era esagerato, se ne trasportava il
senso senza introdurre la parola, descrivendo in nota la nozione designata
dalla parola in originale. È il modo di procedere classico degli etnografi: ad
es. C. Levi-Strauss in Tristi tropici (1955) usò circa 300 termini
stranieri (noti, tradotti o spiegati in nota); così J. Malaurie, studioso di
tribù esquimesi.
Di
tutt’altra natura è invece il problema dei transferts di significato,
considerato la grande difficoltà del traduttore: è il problema
dell’espressività di certe parole, problema legato alla traduzione letteraria e
poetica. Come fare infatti per rendere il fascino indefinibile di una
particolare parola francese? Si moltiplicano dunque le espressioni tipo ‘in
italiano nel testo’ che un autore mette quando nella parola vi trova qualcosa
di intraducibile.
Questi
problemi, dunque, senza dubbio interessanti ma di minor peso, hanno mascherato
per secoli agli occhi dei traduttori i veri problemi del significato.
Ferdinand
de Saussure
In
realtà, il perché del significato delle parole è un vecchio problema
filosofico che ha percorso Platone, Descartes, Leibniz, Peirce, ma è solo nel
linguista statunitense William Whitney (prima di Saussure) che lo vediamo formulato
in termini linguistici.
Saussure
lo riprende, mettendo prima in luce la concezione tradizionale, la sottintesa
teoria per cui una lingua è una specie di ‘nomenclatura’ in cui viene
attribuito un nome a ogni cosa o concetto già dati in precedenza, per
cui non esiste problema di significato che non sia solubile.
Saussure
dimostra invece che il rapporto di significazione che unisce una cosa o un
concetto a una parola non è così semplice e che la loro denominazione non
ubbidisce a leggi universali. Infatti, se il francese mouton indica le
due nozioni di animale e della sua carne, l’inglese le distingue (sheep
e mutton). Ciò significa che ogni parola fa parte di un sistema e non di
una nomenclatura, in cui risulterebbe isolata e come un’etichetta ben definita.
All’interno di una lingua, infatti, tutte le parole con significato analogo si
limitano reciprocamente e i sinonimi, quindi, hanno valore proprio solo se
contrapposti tra loro. Ciò significa che noi cogliamo non le idee già date,
ma i valori che emanano dal sistema. Quando si dice ch’essi corrispondono a dei
concetti, si sottintende infatti ch’essi sono definiti negativamente, cioè
d’essere ciò che gli altri non sono.
Saussure
non va oltre: è ancora l’epoca della psicologia classica in cui si crede
sull’ipotesi di una natura umana eterna. Tuttavia suggerisce che la
suddivisione dell’universo materiale in cose e dell’universo mentale in
concetti non è un’operazione soggetta a un’unica legge universale. Tale
suddivisione infatti può compiersi a mille livelli diversi: ad esempio, nei
gruppi nomadi del Sahara che vivono di allevamento di cammelli, lo spazio
semantico esaurito dalle tre povere parole europee (cammello, cammella,
cammellino) è coperto da ben sessanta termini per distinguere cose che noi
invece confondiamo. Ogni civiltà dunque suddivide il mondo in oggetti secondo i
propri bisogni: dato che alleviamo ancora cavalli, ci sono sei termini che li indicano
e li distinguono e poiché non alleviamo rondini tutte le rondini sono
semplicemente rondini.
Saussure
apre così il grande dibattito della linguistica sul problema del senso. E nella
sua analisi i traduttori avrebbero trovato di che inquietarsi perché mostrava
che il problema della traduzione non era legato ad un preteso ‘genie des
langues’ né a pretese ‘ricchezze’ o ‘povertà’ di certi idiomi bensì dalla
descrizione di tutta una civiltà di cui la lingua è espressione.
Saussure
giustificava tuttavia le soluzioni empiriche dei traduttori: l’imprestito come
il calco erano per lui legittimi. Quanto alla traduzione parola per parola,
antica utopia di un’epoca che credeva ancora nell’unità dell’universo, essa era
condannata e non per ragioni estetiche ma per ragioni epistemologiche: tale
traduzione è impossibile perché ogni gruppo sociale fa l’inventario delle cose
del mondo in modo diverso e le ‘nomenclature’ non possono quindi mai
corrispondere. Tradurre era dunque più difficile di quanto si fosse creduto, ma
non impossibile.
Louis Hjelmslev
Con
Hjelmslev la critica alla nozione di significato si fa più radicale e in
termini puramente linguistici. Prendendo spunto da Saussure, attacca la
concezione secondo cui ‘un segno è anzitutto il segno di qualche cosa’: il
segno linguistico non è qualcosa che indichi un contenuto esterno al linguaggio
ma è un’entità generata dalla relazione fra un’espressione e un contenuto.
L’esempio tipico di Hjelmslev è quello di mostrare che non esistono concetti di
colori anteriori alle lingue che li denominano.
Se
ne deduce la dimostrazione che le lingue riducono il mondo esteriore in oggetti
o concetti secondo schemi irrimediabilmente diversi e che non esistono cose o
concetti eterni e universali già dati prima di qualsiasi denominazione
linguistica. Le diverse lingue dunque analizzano il mondo in modo arbitrario.
Su
questo schema Hjelmslev moltiplica le sue analisi studiando la denominazione di
legno nelle lingue europee, la
nozione di numero grammaticale
traendone conclusioni epistemologiche draconiane: l’universo è in se stesso
inaccessibile alla conoscenza; esso non possiede un’esistenza scientifica al di
fuori del modo con cui se ne parla.
Per
indicare ciò che qui noi chiamiamo universo,
Hjelmslev usa il vocabolo purport,
che sta a significare tutto quanto c’è nella testa di chi parla.
Tali
concezioni negherebbero qualsiasi possibilità di tradurre se non fossero
attenuate, e a volte contraddette, da altre tesi. La sua posizione sarebbe più
corretta infatti se la si modificasse in: il significato (purport) non può avere esistenza linguistica se non rappresentando
la sostanza linguistica di una forma linguistica.
E
poiché lo studio del contenuto del linguaggio non è compito della linguistica
ma di altre scienze esiste dunque la possibilità di accostarsi al purport per altra via senza l’ausilio
della linguistica. Tuttavia è importante che i traduttori non dimentichino mai
l’analisi dei fatti linguistici perché non si è mai sicuri che l’analisi della
realtà di cui parla una lingua corrisponda a quella della lingua usata nel
tradurre.
Leonard Bloomfield
Anche
Bloomfield, fondatore della scuola di Yale, aveva tentato di eliminare dalla
linguistica il ricorso ai significati.
Bloomfield,
da parte sua, lo fa cercando di analizzare il linguaggio in funzione del behaviorismo, cioè attraverso la pura
descrizione del comportamento del parlante e dell’ascoltatore, sperando di
eliminare ogni riferimento di natura psicologica. Pretendeva dunque di ignorare
quel che noi chiamiamo coscienza, immagini mentali, ecc., tutte realtà non
linguistiche, inaccessibili al linguista e che non si possono mettere in
evidenza attraverso mezzi puramente linguistici. Il linguista dunque si occupa
di segnali linguistici. Non ha competenza per problemi di psicologia o di
fisiologia e le sue scoperte avranno più valore per lo psicologo quanto meno
distorsioni avranno subito da supposizioni preconcette. Ne consegue che il
significato di una forma linguistica è la situazione in cui l’enuncia il
parlante e la risposta ch’esso ottiene dall’ascoltatore; che il significato di
un’enunciazione per un parlante non è niente di più del risultato delle
situazioni in cui questi ha concepito tale forma.
Simile
definizione, fondata sulla nozione di situazione
sconvolge profondamente la nozione di senso,
perché non ci sono mai situazioni uguali; perché per poter definire esattamente
il senso di un enunciato la situazione dev’essere corredata da una conoscenza
di tutto quel che c’è nel mondo del parlante; perché la conoscenza esatta dei
significati implicherebbe l’onniscienza e quindi la scienza dei significati, la
semantica, è il punto debole dello
studio del linguaggio.
Preso
alla lettera, sembrerebbe che Bloomfield neghi ogni possibilità di traduzione
per l’impossibilità di accedere al senso completo degli enunciati. In realtà
Bloomfield è stato meno intransigente: anzitutto nella comunicazione delle situazioni vi sono aspetti che non hanno
alcuna importanza semantica (se dico ‘ho visto una mela’ l’ascoltatore per
capire non ha bisogno di saperne la grandezza, il colore, ecc: il linguaggio
traduce infatti, di una situazione, solo la parte socializzata e utile alla
comunicazione); inoltre, possiamo definire il significato di una forma
linguistica quando esso si riferisce a qualcosa di cui si possiede conoscenza
scientifica.
Bloomfield
dunque non nega la possibilità di accedere ai significati linguistici e quindi
tradurli, ma ha permesso di prendere coscienza delle difficoltà che si
incontrano quando vogliamo delimitare la superficie esatta dello stesso
enunciato per parlanti e ascoltatori diversi. Così, contribuendo a smantellare
l’antica certezza che si potesse tradurre tutto, Bloomfield ha contribuito a
perfezionare gli strumenti del traduttore.
11. Semantica e “visioni del mondo”
Wilhelm von Humboldt
Prima
di Saussure la nozione di significato in linguistica avrebbe potuto essere
scossa dalle teorie di von Humboldt, legate a quella corrente del pensiero
tedesco sull’anima popolare e sulla creazione di valori ideali da parte di
questa, una concezione poco scientifica della innere, secondo la quale prima della lingua sarebbe esistita una
sorta di stampo mentale peculiare a ogni popolo.
In
effetti Humboldt richiamava l’attenzione su alcuni fatti del linguaggio. Ad
esempio, che il linguaggio non è un ergon
(una ‘cosa’) ma energeia (una
‘attività creatrice’); che la lingua è come un prisma deformante, diverso per
ogni lingua, ma è anche lo strumento con cui l’uomo crea il suo modo di
guardare. La visione del mondo di ogni uomo è data dunque dalla sua lingua. Nel
primo quarto del Novecento le idee humboldtiane furono riprese e sviluppate più
compiutamente.
Edward Sapir
Le
tesi humboldtiane furono riprese dalla scuola di linguisti-antropologi
americani allievi di Franz Boas e Sapir seppe chiarirle affermando che il
linguaggio e le nostre abitudini di pensiero sono uniti fra loro
inestricabilmente e che gli esseri umani non vivono solo nel mondo oggettivo ma
sono alla mercé della lingua, mezzo d’espressione della loro società. Il fatto
è che gran parte del mondo reale è modellata inconsciamente secondo le
abitudini linguistiche del gruppo e noi vediamo e sentiamo guidati dalle
abitudini linguistiche della nostra società che ci predispone verso certe
scelte nella nostra interpretazione.
Benjamin Lee Whorf
Queste
tesi furono riprese da Lee Whorf e quando la linguistica americana parla di
‘ipotesi di Whorf’ si riferisce al fatto che è il nostro linguaggio a fornirci
la forma dell’esperienza che pensiamo di avere del mondo e che i fatti sono
diversi per ogni parlante perché i suoi strumenti linguistici gli forniscono
modi diversi di esprimerli (Whorf stava portando avanti le sue ricerche
linguistiche sugli amerindiani). È in tal senso che Whorf parla di ‘relatività
linguistica’ e che è impossibile tradurre il significato totale di un enunciato
del XIV sec. quale lo si percepiva all’epoca. Da qui la vera tesi di Whort: la
nostra lingua suddivide il mondo riducendo in frammenti il continuo fluire
dell’esistenza e seziona la natura in molti modi diversi, secondo linee
tracciate dai nostri idiomi.
Whorf
ha contribuito così a dimostrare che gli uomini non vedono sempre il mondo
nello stesso modo e che il linguaggio ora facilita ora ostacola l’appercezione
del mondo esterno.
Jost Trier
Ricorrendo all’esempio della
denominazione dei colori in greco, Leo Weisgerber ha mostrato come la ‘visione
del mondo’ riflessa in una lingua…
3 pagine di 6 – per continuare segui questo link (o copialo nella
barra indirizzi):
[1] Ed ecco i lessici europei
riempirsi di termini arabi (durante le crociate), amerindiani, russi (dalla
fine del XVIII s.), africani (colonizzazione).
Nessun commento:
Posta un commento