Parte Prima.
Introduzione
1. La traduzione nel
mondo moderno
La
traduzione è sempre esistita, anche se nelle grandi enciclopedie o nei manuali
di linguistica ancora non se ne fa cenno. Sulla proprietà letteraria della
traduzione, poi, soltanto recentemente s’è avuta una qualche legislazione che
la tuteli. Il fatto è che finché l’interprete restava un subalterno continuava
ad essere un semplice ‘artigiano’.
Oggi
non è più così, perché la traduzione è diventata un fenomeno di massa, come
emerge dall’Index Translationum
dell’Unesco (fondato nel 1932, ma attivo dal 1948) e dalla notevole importanza
che ha assunto anche la traduzione cinematografica rendendo l’attuale
traduzione una vera e propria attività industriale.
2. Qualche
definizione
Nel
XVI secolo, grazie all’umanista francese Etienne Dolet[1], si
afferma il termine traducteur, che
nel 1549, insieme al termine traduction,
troverà spazio in tre capitoli dell’opera Deffence
de la langue française del Du Bellay.
L’«interpres» e il «translateur»
Prima
del XVI secolo, gli antichi termini francesi sono translater, translateur, translation, che appaiono nel XIII
secolo.
Prima
di questo periodo, infatti, vigeva il latino interpres, interpretari
che riuniva nella stessa parola l’operazione compiuta sulla lingua orale e
quella compiuta sulla lingua scritta. Dunque, sarà solo nel XII secolo che, con
il termine francese truchement, ci
sarà una prima distinzione del primo termine (interprete) dal termine translateur.
La
fine della latinità indica quindi una la prima distinzione specifica tra
l’interprete, che opera sulla lingua orale, e il traduttore, che opera sulla
lingua scritta. Tale distinzione è valida tuttora perché relativa ad attività
che si basano su metodi ben differenziati se non addirittura contraddittori.
Per
dare un nome a tale attività, all’inizio dell’era moderna nascono nuovi termini
che si rifanno tutti alla medesima metafora: ‘far passare’, ossia facilitare il passaggio da una lingua a
un’altra, ‘trasportare’ in un’altra
lingua il significato di un idioma, idea già nel latino tra-duco, nell’italiano tradurre,
nel francese traduire.
Versione e traduzione
Distinzione
legata all’esegesi religiosa, nel 1657 Bryan Walton, dottore in teologia a
Cambridge, non confonde tra loro versione,
versione interlineare, traduzione, interpretazione e parafrasi,
forme di traduzione che entreranno nella retorica classica fino agli albori del
XIX secolo.
Nell’Encyclopédie la versione è ‘l’interpretazione letterale di un’opera’, più aderente
alle strutture della lingua d’origine e più asservita ai principi della sua
costruzione analitica, mentre la traduzione
bada maggiormente ai significati ed è più attenta a renderli nella forma più
conveniente alla nuova lingua. Si riconosce qui la distinzione classica tra traduzione letterale e ‘le belle
infedeli’, le traduzioni libere ma
ben scritte, e anche tra traduzione
scolastica e traduzione letteraria.
In
conclusione, l’arte del tradurre presuppone la versione, che d’altronde fa
parte dei primi tentativi di traduzione. Nell’uso moderno, tuttavia, si
definirebbe traduzione il lavoro oggettivo, mentre la versione sarebbe una
traduzione connessa con le scelte più soggettive del traduttore.
La traduzione moderna
Oggi
quando si parla di traduzione si intende:
a) la traduzione
interlineare (posta fra le righe) o riga
a riga (con testo a fronte). Sono sempre letterali, soprattutto la prima,
mentre la seconda può avere un po’ di libertà ma sempre nei limiti della riga o
del verso. Questi tipi di traduzione, se condannati da Paul Valery come
‘preparazioni anatomiche’, erano difese da Benedetto Croce, che le considerava
semplici strumenti didattici destinati a facilitare la comprensione delle opere
originali. Queste traduzioni letterali devono comunque essere sempre
accompagnate dai testi originali;
b) la traduzione
letterale (ossia parola per parola). Corrisponde alla versione come la
intendevano i traduttori della Sacra Scrittura (per esigenze teologiche), gli
Enciclopedisti e Croce. Questa forma non verrà qui presa in considerazione;
c) la traduzione
moderna propriamente detta, ossia il risultato di tutta l’esperienza
passata, cioè cerca di rispettare la lingua in ogni parola, in ogni sua
costruzione, in tutti i suoi modi stilistici. Si preoccupa anche di non violare
la lingua in cui si traspone, rispettando lo spirito della lingua originale e
quella in cui si traduce, senza aggiungere né togliere nulla.
La traduzione come metafora
Oggi
che si tende a ridurre la traduzione ad una serie di operazioni automatiche
(scientifiche) non sembra inutile confrontare il termine tradurre con i suoi
usi metaforici.
Naturalmente,
nessuno pensa che tradurre sia un’operazione simile a quella per cui un buon
attore, o un buon pianista, interpretano una parte o un pezzo musicale.
Certo,
si può dire che uno stenografo ‘traduce’ una lettera in simboli stenografici,
un telegrafista ‘traduce’ in alfabeto Morse, un testo in Braille ‘traduce’ un
testo stampato, ma queste operazioni si servono del verbo tradurre soltanto in senso figurato.
a) Quando un messaggio orale passa alla sua forma scritta
si parla di trascrizione, ma meglio
parlare di notazione (scriptio in latino), perché
‘trascrizione’ suggerisce l’idea del passaggio da una lingua ad un’altra;
b) Quando un messaggio scritto passa da una scrittura a
un’altra è un’operazione ben diversa, con regole ben definite. Si tratta
infatti di un cambiamento di codice, come il passaggio da un testo scritto a
uno stenografico, ad uno in alfabeto Morse o in caratteri Braille. Queste
operazioni si chiamano translitterazioni,
se il passaggio è fatto lettera per lettera come, ad es., il passaggio dai
caratteri cirillici a quelli latini. Tutte queste operazioni ben diverse dalla
traduzione, per cui non si ha bisogno di ricorrere al significato. Infatti, lo
stenografo, l’operatore Morse o Braille, possono eseguire il loro lavoro senza
comprendere neppure una parola del messaggio translitterato, mentre il lavoro
del traduttore esige che si risalga al significato della lingua originale per
renderlo poi nella lingua in cui traduce.
Ecco
allora che, quando si fa uso della parola tradurre,
è bene attenersi a quanto suggerisce Emile Delavenay, che rifiuta la parola tradurre quando c’è passaggio da un
sistema di simboli ad un altro e l’accoglie invece quando c’è trasposizione da
una lingua ad un’altra[2].
Parte Seconda.
Cenni storici
3. Interpreti e
traduttori nell’antichità
Ancora
non esiste una storia della traduzione, nonostante alcuni tentativi di Edouard
Cary, segretario della FIT (Federazione Internazionale Traduttori), perché
sarebbe un’opera immensa, dato che la traduzione è sempre esistita.
La traduzione proto-storica
Anche
nelle tribù più isolate, l’uomo che traduce lo si ritrova sempre. Per
l’etnografo austriaco Bernatzik, anche nelle popolazioni più arretrate, quasi
tutti parlano la lingua dei vicini o c’è un indigeno che la conosce e se ne fa
interprete. Quindi la figura dell’interprete si ritrova sempre: gli scribi in
Asia Minore e nell’antico Egitto, gli uomini-interpreti della Cina e dell’India
arcaiche.
La traduzione antica
Il
primo tentativo di traduzione si manifesta inizialmente in Asia Minore con la
redazione in liste bilingue di parole su tavolette di terracotta. Ma le prime
riflessioni sull’arte del tradurre le ritroviamo a Roma, dove la letteratura si
può dire è nata dalla traduzione. Già Cicerone, traducendo i Discorsi di Demostene, pone il problema
di fondo della traduzione: se bisogna essere fedeli alle parole del testo
(traduzione letterale) o al pensiero contenuto nel testo (traduzione libera o
‘bella infedele’). La soluzione di Cicerone è già l’opzione fondamentale: «Li
ho resi non da semplice traduttore (ut
interpres) ma da scrittore (sed ut
orator). Non ho dunque ritenuto necessario rendere ogni parola con una
parola e tuttavia ho conservato intatto il significato essenziale, perché al
lettore di queste parole non interessa il numero ma per così dire il peso».
Orazio
ribadisce lo stesso precetto e si esprime negli stessi termini per definire
l’adattamento più che la traduzione. Prima di Orazio la traduzione dei Settanta (III sec. a.C.) dell’Antico
Testamento era stata un’impresa non indifferente, a parte le critiche di san
Gerolamo. Nell’era cristiana Evagro, amico di san Gerolamo, dimostra quanto
ormai fosse diffuso il giudizio di Cicerone: «Se la traduzione viene fatta letteralmente
nasconde il significato del testo». Ma sarà san Gerolamo a chiudere il periodo
antico con un trattato sulla traduzione, il De
optimo genere interpretandi, tutto improntato sulle tesi di Cicerone che
gli meritò il titolo di Patrono dei traduttori (V. Larbaud, 1946).
4. La
traduzione nel Medioevo
Fin
dall’antichità, dunque, la traduzione ha un suo luogo definito come attività
letteraria e prosegue nel Medioevo, poiché la traduzione resta legata a
esigenze pratiche. Cristianizzare, infatti, significava tradurre. Così
l’Inghilterra ha il suo Venerabile Beda (VIII sec.), l’Irlanda i suoi monaci di
Bangor, la Germania
il suo Notker (monastero di San Gallo), i paesi slavi i loro Cirillo e Metodio,
che crearono l’alfabeto cirillico. D’altronde, il passaggio dal latino alle
lingue neolatine si compie con una lunga serie di traduzioni. Così il primo
testo letterario francese Cantilene de
sainte Eulalie (883) è l’adattamento in volgare di un cantico latino. Anche
la traduzione profana ha lasciato le sue tracce. Ricordiamo, ad esempio, il Serment de Strasbourg (842), l’atto di
nascita ufficiale della nazione francese, sarebbe la traduzione romanza di una
minuta diplomatica in latino.
Altra
ricca serie di traduzioni medievali è quella araba, quando, con l’aiuto di
qualche ebreo, si traducono testi ebraici, ma più spesso greci, di opere di
medici, filosofi, astronomi, e molte opere greche torneranno a vivere a Cordoba
(dove visse Averroé) e Toledo.
Alla
fine del XII sec. Maimonide, a commento di questa impresa araba, scrisse
riprendendo Cicerone e san Gerolamo: «Chi vuol tradurre e si propone di rendere
una data parola con una sola parola che le corrisponda, durerà molta fatica...
Il traduttore invece deve chiarire lo svolgersi del pensiero e può giungervi solo
cambiando a volte tutto il complesso, rendendo un solo termine con più parole o
più parole con una sola, finché il pensiero sia chiaro e l’espressione
comprensibile».
La scuola di Toledo
Incrocio
tra cultura araba, ebraica e cristiana Toledo fu (dal XII sec.) la prima vera
scuola di traduttori. L’opera di Tolomeo, Averroé, Maimonide e il Corano
vengono colà tradotti in latino. Tra i traduttori, spagnoli, inglesi e ebrei,
emerge Gerardo da Cremona.
Dante e la traduzione
Sebbene
nessun paese offra nulla di simile alla scuola di Toledo, non mancano
testimonianze sull’attività dei traduttori. Dante, ad esempio, nel Convivio riprende sviluppandolo san
Gerolamo: «Se qualcuno non capisce come il fascino di una lingua sia alterato
dalla traduzione, provi a tradurre Omero in latino parola per parola». E
aggiunge: «Nulla cosa per legame armonizzata si può in altra trasmutare senza
rompere tutta la sua dolcezza e armonia».
5. Il Rinascimento e il rinnovamento della traduzione
Il passaggio al Rinascimento
segna un vero cambiamento qualitativo e quantitativo. S’è visto come nella
traduzione religiosa il Medioevo si attenesse al metodo letterale per una forma
di rispetto reverenziale verso le Sacre
Scritture. San Gerolamo d’altronde..
3 pagine di 7 – per continuare segui questo link (o copialo nella
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