giovedì 3 settembre 2015

Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (part I & II)



Parte Prima. Introduzione

1. La traduzione nel mondo moderno

La traduzione è sempre esistita, anche se nelle grandi enciclopedie o nei manuali di linguistica ancora non se ne fa cenno. Sulla proprietà letteraria della traduzione, poi, soltanto recentemente s’è avuta una qualche legislazione che la tuteli. Il fatto è che finché l’interprete restava un subalterno continuava ad essere un semplice ‘artigiano’.
Oggi non è più così, perché la traduzione è diventata un fenomeno di massa, come emerge dall’Index Translationum dell’Unesco (fondato nel 1932, ma attivo dal 1948) e dalla notevole importanza che ha assunto anche la traduzione cinematografica rendendo l’attuale traduzione una vera e propria attività industriale.

2. Qualche definizione

Nel XVI secolo, grazie all’umanista francese Etienne Dolet[1], si afferma il termine traducteur, che nel 1549, insieme al termine traduction, troverà spazio in tre capitoli dell’opera Deffence de la langue française del Du Bellay.

L’«interpres» e il «translateur»
Prima del XVI secolo, gli antichi termini francesi sono translater, translateur, translation, che appaiono nel XIII secolo.
Prima di questo periodo, infatti, vigeva il latino interpres, interpretari che riuniva nella stessa parola l’operazione compiuta sulla lingua orale e quella compiuta sulla lingua scritta. Dunque, sarà solo nel XII secolo che, con il termine francese truchement, ci sarà una prima distinzione del primo termine (interprete) dal termine translateur.
La fine della latinità indica quindi una la prima distinzione specifica tra l’interprete, che opera sulla lingua orale, e il traduttore, che opera sulla lingua scritta. Tale distinzione è valida tuttora perché relativa ad attività che si basano su metodi ben differenziati se non addirittura contraddittori.
Per dare un nome a tale attività, all’inizio dell’era moderna nascono nuovi termini che si rifanno tutti alla medesima metafora: ‘far passare’, ossia facilitare il passaggio da una lingua a un’altra, ‘trasportare’ in un’altra lingua il significato di un idioma, idea già nel latino tra-duco, nell’italiano tradurre, nel francese traduire.

Versione e traduzione
Distinzione legata all’esegesi religiosa, nel 1657 Bryan Walton, dottore in teologia a Cambridge, non confonde tra loro versione, versione interlineare, traduzione, interpretazione e parafrasi, forme di traduzione che entreranno nella retorica classica fino agli albori del XIX secolo.
Nell’Encyclopédie la versione è ‘l’interpretazione letterale di un’opera’, più aderente alle strutture della lingua d’origine e più asservita ai principi della sua costruzione analitica, mentre la traduzione bada maggiormente ai significati ed è più attenta a renderli nella forma più conveniente alla nuova lingua. Si riconosce qui la distinzione classica tra traduzione letterale e ‘le belle infedeli’, le traduzioni libere ma ben scritte, e anche tra traduzione scolastica e traduzione letteraria.
In conclusione, l’arte del tradurre presuppone la versione, che d’altronde fa parte dei primi tentativi di traduzione. Nell’uso moderno, tuttavia, si definirebbe traduzione il lavoro oggettivo, mentre la versione sarebbe una traduzione connessa con le scelte più soggettive del traduttore.

La traduzione moderna
Oggi quando si parla di traduzione si intende:
a)      la traduzione interlineare (posta fra le righe) o riga a riga (con testo a fronte). Sono sempre letterali, soprattutto la prima, mentre la seconda può avere un po’ di libertà ma sempre nei limiti della riga o del verso. Questi tipi di traduzione, se condannati da Paul Valery come ‘preparazioni anatomiche’, erano difese da Benedetto Croce, che le considerava semplici strumenti didattici destinati a facilitare la comprensione delle opere originali. Queste traduzioni letterali devono comunque essere sempre accompagnate dai testi originali;
b)      la traduzione letterale (ossia parola per parola). Corrisponde alla versione come la intendevano i traduttori della Sacra Scrittura (per esigenze teologiche), gli Enciclopedisti e Croce. Questa forma non verrà qui presa in considerazione;
c)      la traduzione moderna propriamente detta, ossia il risultato di tutta l’esperienza passata, cioè cerca di rispettare la lingua in ogni parola, in ogni sua costruzione, in tutti i suoi modi stilistici. Si preoccupa anche di non violare la lingua in cui si traspone, rispettando lo spirito della lingua originale e quella in cui si traduce, senza aggiungere né togliere nulla.

La traduzione come metafora
Oggi che si tende a ridurre la traduzione ad una serie di operazioni automatiche (scientifiche) non sembra inutile confrontare il termine tradurre con i suoi usi metaforici.
Naturalmente, nessuno pensa che tradurre sia un’operazione simile a quella per cui un buon attore, o un buon pianista, interpretano una parte o un pezzo musicale.
Certo, si può dire che uno stenografo ‘traduce’ una lettera in simboli stenografici, un telegrafista ‘traduce’ in alfabeto Morse, un testo in Braille ‘traduce’ un testo stampato, ma queste operazioni si servono del verbo tradurre soltanto in senso figurato.
a)      Quando un messaggio orale passa alla sua forma scritta si parla di trascrizione, ma meglio parlare di notazione (scriptio in latino), perché ‘trascrizione’ suggerisce l’idea del passaggio da una lingua ad un’altra;
b)      Quando un messaggio scritto passa da una scrittura a un’altra è un’operazione ben diversa, con regole ben definite. Si tratta infatti di un cambiamento di codice, come il passaggio da un testo scritto a uno stenografico, ad uno in alfabeto Morse o in caratteri Braille. Queste operazioni si chiamano translitterazioni, se il passaggio è fatto lettera per lettera come, ad es., il passaggio dai caratteri cirillici a quelli latini. Tutte queste operazioni ben diverse dalla traduzione, per cui non si ha bisogno di ricorrere al significato. Infatti, lo stenografo, l’operatore Morse o Braille, possono eseguire il loro lavoro senza comprendere neppure una parola del messaggio translitterato, mentre il lavoro del traduttore esige che si risalga al significato della lingua originale per renderlo poi nella lingua in cui traduce.
Ecco allora che, quando si fa uso della parola tradurre, è bene attenersi a quanto suggerisce Emile Delavenay, che rifiuta la parola tradurre quando c’è passaggio da un sistema di simboli ad un altro e l’accoglie invece quando c’è trasposizione da una lingua ad un’altra[2].



Parte Seconda. Cenni storici

3. Interpreti e traduttori nell’antichità

Ancora non esiste una storia della traduzione, nonostante alcuni tentativi di Edouard Cary, segretario della FIT (Federazione Internazionale Traduttori), perché sarebbe un’opera immensa, dato che la traduzione è sempre esistita.

La traduzione proto-storica
Anche nelle tribù più isolate, l’uomo che traduce lo si ritrova sempre. Per l’etnografo austriaco Bernatzik, anche nelle popolazioni più arretrate, quasi tutti parlano la lingua dei vicini o c’è un indigeno che la conosce e se ne fa interprete. Quindi la figura dell’interprete si ritrova sempre: gli scribi in Asia Minore e nell’antico Egitto, gli uomini-interpreti della Cina e dell’India arcaiche.

La traduzione antica
Il primo tentativo di traduzione si manifesta inizialmente in Asia Minore con la redazione in liste bilingue di parole su tavolette di terracotta. Ma le prime riflessioni sull’arte del tradurre le ritroviamo a Roma, dove la letteratura si può dire è nata dalla traduzione. Già Cicerone, traducendo i Discorsi di Demostene, pone il problema di fondo della traduzione: se bisogna essere fedeli alle parole del testo (traduzione letterale) o al pensiero contenuto nel testo (traduzione libera o ‘bella infedele’). La soluzione di Cicerone è già l’opzione fondamentale: «Li ho resi non da semplice traduttore (ut interpres) ma da scrittore (sed ut orator). Non ho dunque ritenuto necessario rendere ogni parola con una parola e tuttavia ho conservato intatto il significato essenziale, perché al lettore di queste parole non interessa il numero ma per così dire il peso».
Orazio ribadisce lo stesso precetto e si esprime negli stessi termini per definire l’adattamento più che la traduzione. Prima di Orazio la traduzione dei Settanta (III sec. a.C.) dell’Antico Testamento era stata un’impresa non indifferente, a parte le critiche di san Gerolamo. Nell’era cristiana Evagro, amico di san Gerolamo, dimostra quanto ormai fosse diffuso il giudizio di Cicerone: «Se la traduzione viene fatta letteralmente nasconde il significato del testo». Ma sarà san Gerolamo a chiudere il periodo antico con un trattato sulla traduzione, il De optimo genere interpretandi, tutto improntato sulle tesi di Cicerone che gli meritò il titolo di Patrono dei traduttori (V. Larbaud, 1946).

4. La traduzione nel Medioevo

Fin dall’antichità, dunque, la traduzione ha un suo luogo definito come attività letteraria e prosegue nel Medioevo, poiché la traduzione resta legata a esigenze pratiche. Cristianizzare, infatti, significava tradurre. Così l’Inghilterra ha il suo Venerabile Beda (VIII sec.), l’Irlanda i suoi monaci di Bangor, la Germania il suo Notker (monastero di San Gallo), i paesi slavi i loro Cirillo e Metodio, che crearono l’alfabeto cirillico. D’altronde, il passaggio dal latino alle lingue neolatine si compie con una lunga serie di traduzioni. Così il primo testo letterario francese Cantilene de sainte Eulalie (883) è l’adattamento in volgare di un cantico latino. Anche la traduzione profana ha lasciato le sue tracce. Ricordiamo, ad esempio, il Serment de Strasbourg (842), l’atto di nascita ufficiale della nazione francese, sarebbe la traduzione romanza di una minuta diplomatica in latino.
Altra ricca serie di traduzioni medievali è quella araba, quando, con l’aiuto di qualche ebreo, si traducono testi ebraici, ma più spesso greci, di opere di medici, filosofi, astronomi, e molte opere greche torneranno a vivere a Cordoba (dove visse Averroé) e Toledo.
Alla fine del XII sec. Maimonide, a commento di questa impresa araba, scrisse riprendendo Cicerone e san Gerolamo: «Chi vuol tradurre e si propone di rendere una data parola con una sola parola che le corrisponda, durerà molta fatica... Il traduttore invece deve chiarire lo svolgersi del pensiero e può giungervi solo cambiando a volte tutto il complesso, rendendo un solo termine con più parole o più parole con una sola, finché il pensiero sia chiaro e l’espressione comprensibile».

La scuola di Toledo
Incrocio tra cultura araba, ebraica e cristiana Toledo fu (dal XII sec.) la prima vera scuola di traduttori. L’opera di Tolomeo, Averroé, Maimonide e il Corano vengono colà tradotti in latino. Tra i traduttori, spagnoli, inglesi e ebrei, emerge Gerardo da Cremona.

Dante e la traduzione
Sebbene nessun paese offra nulla di simile alla scuola di Toledo, non mancano testimonianze sull’attività dei traduttori. Dante, ad esempio, nel Convivio riprende sviluppandolo san Gerolamo: «Se qualcuno non capisce come il fascino di una lingua sia alterato dalla traduzione, provi a tradurre Omero in latino parola per parola». E aggiunge: «Nulla cosa per legame armonizzata si può in altra trasmutare senza rompere tutta la sua dolcezza e armonia».

5. Il Rinascimento e il rinnovamento della traduzione

Il passaggio al Rinascimento segna un vero cambiamento qualitativo e quantitativo. S’è visto come nella traduzione religiosa il Medioevo si attenesse al metodo letterale per una forma di rispetto reverenziale verso le Sacre Scritture. San Gerolamo d’altronde..


3 pagine di 7 – per continuare segui questo link (o copialo nella barra indirizzi):





[1] E. Dolet, Manière de bien traduire d'une langue en l'autre, 1540.
[2] E. Delavenay, La machine à traduire, Puf, Paris 1959.

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