mercoledì 2 settembre 2015

Berruto/Cerruti - Linguistica generale. 1. Il Linguaggio verbale



G. Berruto M. Cerruti, La linguistica. Un corso introduttivo (Utet 2011)


Cap. 1  Il linguaggio verbale

1.1  Linguistica, lingue, linguaggio, comunicazione

Definizione di linguistica: ramo delle scienze umane che studia la lingua.
Si può suddividere in due sottocampi principali:
-          La linguistica generale, che studia cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue;
-          La linguistica storica, che si occupa dell’evoluzione delle lingue nel tempo, dei rapporti fra le lingue e fra lingua e cultura.

Oggetto della linguistica sono dunque le cosiddette lingue storico-naturali, cioè le lingue nate spontaneamente lungo il corso della civiltà umana e usate dagli esseri umani: l’italiano, il francese, il romeno, lo svedese, il russo, il cinese, il tongano, il latino, il sanscrito, lo swahili, il tigrino, il piemontese.
Tutte le lingue storico-naturali sono espressione di quello che viene definito il linguaggio verbale umano, facoltà innata nell’homo sapiens e uno degli strumenti e dei modi di comunicazione che questi ha a disposizione. Da questo punto di vista, non c’è differenza tra lingue e dialetti, perché tutti i sistemi linguistici sono manifestazione specifica del linguaggio verbale umano. La distinzione, semmai, è basata su considerazioni sociali e storico-culturali e in questo caso entra in campo la sociolinguistica.

Per inquadrare il linguaggio verbale umano fra i vari tipi di comunicazione è utile partire dalla nozione di segno. Un segno è qualcosa che sta per qualcos’altro che serve per comunicare questo qualcos’altro (comunicare significa ‘mettere in comune’).

Si può avere una concezione molto larga oppure molto stretta di cosa vuol dire ‘comunicare’. La definizione di comunicazione in senso largo implica il fatto che tutto può comunicare qualcosa (anche i fatti di natura) ed è suscettibile di interpretazione. In senso lato, dunque, comunicazione equivale a ‘passaggio di informazione’. È più utile, però, intendere comunicazione in senso più ristretto, che implica come ingrediente fondamentale l’intenzionalità. Si ha dunque comunicazione in senso stretto quando c’è un comportamento prodotto da un emittente al fine di far passare un’informazione che viene percepita da un ricevente in grado di recepire il messaggio come tale; altrimenti si ha un semplice passaggio di informazione.
Con più precisione, all’interno del fenomeno generale della comunicazione si possono distinguere tre categorie, a seconda del carattere di chi produce il messaggio (emittente), di chi lo riceve (ricevente) e dell’intenzionalità del loro comportamento:

A.     Comunicazione in senso stretto:
1.      emittente intenzionale;
2.      ricevente intenzionale
(es., linguaggio verbale umano, gesti, tutti i sistemi artificiali di comunicazione: segnalazioni stradali, ecc.)
B.     Passaggio dell’informazione:
1.      emittente non intenzionale;
2.      ricevente (interpretante) intenzionale
(es., parte della comunicazione non verbale umana: postura, paralinguistica, prossemica; orme animali; sintomi fisici; ecc.);
C.     Formulazioni di inferenze:
1.      nessun emittente
(presenza di un ‘oggetto culturale’ interpretato come volto a fornire un’informazione);
2.      interpretante
(es.: case dai tetti aguzzi = “qui nevica molto”, “ci si veste in un certo modo”, ecc.).

Da A a B a C il ‘codice’ di riferimento che permette di interpretare l’informazione diventa meno forte e rigoroso e l’associazione fra un certo segnale e l’informazione che veicola è più lasca, più soggetta a fraintendimenti. Comunicazione è quindi da intendere come trasmissione intenzionale di informazione.



1.2 Segni, codice

Il segno è l’unità fondamentale della comunicazione.
Esistono diversi tipi di segni. Una possibile classificazione (tassonomia) dei segni, basata sui due criteri fondamentali dell’intenzionalità e della motivazione relativa, cioè del grado di rapporto naturale esistente tra le due facce del segno (il ‘qualcosa’ e il ‘qualcos’altro’ per cui il primo sta) può essere:

  1. Indici (sintomi): motivati naturalmente, non intenzionali
(basati sul rapporto causa-effetto. Es. starnuto = “avere il raffreddore”; nuvole scure = “sta per piovere”);
  1. Segnali: motivati naturalmente, usati intenzionalmente
(es. sbadiglio volontario = “sono annoiato”);
  1. Icone (dal gr. ‘immagine’): motivati analogicamente, intenzionali
(basati sulla similarità di forma o struttura, riproducono proprietà dell’oggetto designato. Es. carte geografiche, mappe, fotografie…);
  1. Simboli: motivati culturalmente, intenzionali
(es. colore nero/bianco = lutto; rosso del semaforo = ‘fermarsi’; colomba con ramo d’ulivo = ‘pace’, ecc.);
  1. Segni (in senso stretto - in ing symbols): non motivati (arbitrari, immotivati, convenzionali), intenzionali
(es. messaggi linguistici; il suono del telefono di una linea occupata; segnali stradali; comunicazione gestuale, ecc.).

Dalla categoria 1 alla 5 la motivazione che lega il ‘qualcosa’ al ‘qualcos’altro’ che viene comunicato diventa sempre più convenzionale, immotivata, meno diretta. Da 1 a 5 aumenta quindi la specificità dei segni: mentre gli indici, in quanto fatti di natura, sono di valore universale, uguali per tutte le culture in ogni tempo, i simboli e ancor più i segni in senso stretto sono dipendenti da ogni singola tradizione culturale.

In conclusione, i segni linguistici (es. la parola gatto o la frase ho mangiato una mela, ecc.) sono segni in senso stretto, prodotti intenzionalmente per comunicare, essenzialmente arbitrari.

Nella comunicazione in senso stretto c’è dunque un emittente che emette, produce intenzionalmente un segno per un ricevente. Ma cosa consente al ricevente di interpretare un segno? Il fatto è che il segno riconduce a un codice di cui fa parte e che permette di attribuirgli un significato.
Per ‘codice’ più precisamente si intende l’insieme di corrispondenze, fissatesi per convenzione, fra qualcosa (‘insieme manifestante’) e qualcos’altro (‘insieme manifestato’) che fornisce le regole di interpretazione dei segni. Tutti i sistemi di comunicazione sono dei codici e i segni linguistici costituiscono il codice lingua.

1.3  Le proprietà della lingua

Ci si chieda ora quali proprietà presenti il codice lingua (o il linguaggio verbale umano o, meglio ancora, ogni lingua storico-naturale), quali di queste proprietà siano condivise con altri codici e quali di queste proprietà siano invece caratterizzanti.

1.3.1 Biplanarità
Una prima e ovvia proprietà di tutti i segni e anche di quelli linguistici, è la biplanarità, cioè il fatto che ci siano in un segno due piani compresenti, il ‘qualcosa’ e il ‘qualcos’altro’, ovvero il significante (o ‘espressione’ o ‘forma’) e il significato (o ‘contenuto’). Il significante-espressione è la parte fisicamente percepibile del segno che cade sotto i nostri sensi (es. la parola gatto, pronunciata o scritta); il significato-contenuto è la parte non materialmente percepibile, ossia l’informazione (il ‘qualcos’altro’, nel nostro es. il concetto di “gatto”) veicolata dalla parte percepibile. Tutti i segni sono costituiti da significante e significato e un codice è un insieme di corrispondenze fra significanti e significati.

NB. D’ora in poi i significanti saranno indicati in corsivo e i “significati” tra “virgolette”.

1.3.2 Arbitrarietà
Altra importante proprietà dei segni in senso stretto e quindi anche linguistici è l’arbitrarietà. Non c’è alcun legame naturalmente motivato derivabile empiricamente o per via di ragionamento logico tra il significante e il significato di un segno. Il significante gatto non ha nulla a che vedere, intrinsecamente, con l’animale “gatto”. I rapporti che ci sono tra significato e significante non sono dati naturalmente, ma posti per convenzione e quindi sono arbitrari.
Se i segni linguistici non fossero arbitrari, le parole nelle diverse lingue sarebbero molto simili. Ma, non essendo così, ciò implica che tra la natura di una cosa e la parola che la designa non c’è alcun rapporto se non quello posto dalla convenzione del codice linguistico adottato.
Esistono, però, quattro tipi o livelli diversi di arbitrarietà, e le entità in gioco, in questo caso, non sono più due (significante e significato) ma tre. La cosa è spesso presentata con il cosiddetto ‘triangolo semiotico’, dove i tre vertici rappresentano le tre entità in gioco: un significante, attraverso il significato che veicola e con cui si associa (dando forma al segno), si riferisce a un elemento della realtà esterna, extralinguistica, un referente. La parola sedia, segno formato dalle due facce del significante e del significato, si riferisce all’oggetto reale e lo identifica. La linea di base del triangolo è tratteggiata perché il rapporto tra significante e referente non è diretto ma mediato dal significato. In base a questo schema possiamo allora definire i quattro tipi di arbitrarietà della lingua:

  1. A un primo livello, è arbitrario il rapporto tra segno e referente (o designatum), cioè non c’è alcun legame naturale e concreto fra un elemento della realtà esterna e il segno a cui è associato;
  2. A un secondo livello, è arbitrario il rapporto tra significante e significato, cioè il significante, come sequenza di lettere o suoni, non ha alcun legame, se non per convenzione, con il significato a cui è associato nella lingua italiana;
  3. A un terzo e più profondo livello, è arbitrario il rapporto tra forma (struttura, organizzazione interna) e sostanza (materia, insieme di fatti) del significato;
  4. A un quarto livello, infine, è arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significante, perché ogni lingua sceglie secondo propri criteri le entità rilevanti della materia fonica. Il significante dei segni linguistici, infatti, è primariamente di carattere fonico-acustico, costituito cioè da onde sonore che rappresentano la sostanza su cui ogni lingua effettua le sue pertinentizzazioni. Un esempio di identica sostanza fonica organizzata in maniera diversa dalle diverse lingue può essere dato dalla quantità o durata delle vocali.

Al principio dell’arbitrarietà radicale dei segni linguistici esistono alcune eccezioni. Tra queste ci sono le onomatopee, che riproducono o richiamano nel loro significante i caratteri fisici di ciò che designano. Certe parole (ad es. miagolio, tintinnio, sussurrare, ecc.) che imitano nella loro sostanza di significante il suono o il rumore che designano, presentano quindi un aspetto più o meno iconico. Sarebbero pertanto più icone che simboli o segni in senso stretto. Inoltre, anche le onomatopee possiedono un certo grado di integrazione nella convenzionalità arbitraria del sistema linguistico che le adotta.

Più strettamente iconici sono invece gli ideofoni, cioè espressioni imitative o descrittive che designano fenomeni naturali o azioni, spesso usate nei fumetti, come ad es. boom-bum (‘fragore’), zac (‘taglio netto’), glu-glu (‘trangugiare’).
Riguardo il carattere iconico del linguaggio verbale recenti concezioni tendono a ridurre l’importanza cruciale dell’arbitrarietà, notando come anche nella grammatica esistano meccanismi iconici, dunque motivati. Per esempio, la formazione del plurale con l’aggiunta di materiale linguistico presenta più materiale fonico che non la forma singolare e obbedirebbe, dunque, a un principio di iconismo.

Un’altra prospettiva che vede più motivazione nei segni linguistici è quella che sostiene l’importanza del fonosimbolismo, affermando che certi suoni sono per loro natura associati a certi significati. Il suono i, per esempio, vocale chiusa e fonicamente piccola (prodotta con minima apertura della bocca), sarebbe connesso con le cose piccole e, quindi, designerebbero di preferenza la proprietà della piccolezza.

1.3.3 Doppia articolazione
Altra importante proprietà del linguaggio verbale umano, la doppia articolazione consiste nel fatto che il significante di un segno linguistico è articolato su due livelli nettamente diversi.
A un primo livello, il significante di un segno linguistico è organizzato e scomponibile in unità (mattoni) che sono ancora portatrici di significato e che vengono riutilizzate (con lo stesso significato) per formare altri segni (prima articolazione); la parola gatto è scomponibile in due ‘pezzi’ più piccoli gatt- e -o che recano ciascuno un proprio significato (rispettivamente ‘felino’ e ‘uno solo’) e suscettibili di comparire col medesimo significato in altre parole (gatt-i, gatt-ino, gatt-are, ecc.).
Tali pezzi costituiscono le unità minime di prima articolazione che non possono essere ulteriormente scomponibili in elementi più piccoli che rechino ancora un significato. Ogni segno linguistico è analizzabile e scomponibile in unità minime di prima articolazione che chiameremo morfemi.
Ad un secondo livello (seconda articolazione), i morfemi risultano ulteriormente scomponibili in unità più piccole che però non sono più portatrici di significato autonomo. Tali elementi, che non sono più segni perché non hanno un significato, sono i fonemi, che costituiscono le unità minime di seconda articolazione.
Non esistono altri codici di comunicazione naturali che possiedano una doppia articolazione piena e totale come la..


3 pagine di 8 – per continuare segui questo link (o copialo nella barra indirizzi):

Nessun commento:

Posta un commento